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Cambiare il non profit: Dan Pallotta vs Stefano Zamagni

Migliaia di persone collegate oggi pomeriggio per seguire l'incontro a distanza tra Dan Pallotta e Stefano Zamagni. «Se pensate che la società non possa cambiare, non cambiate niente delle charity. Ma se vogliamo che qualcosa cambi nella società, dobbiamo cambiare le nostre charity», ha detto Pallotta. La replica di Zamagni: «Non c'è solo la remunerazione estrinseca. Il nostro non profit è gracile perché non investe sul capitale umano»

di Sara De Carli

Consigli di Dan Pallotta per il non profit italiano, da mettere in atto «domani».

  1. Siete un paese generoso, pronto a dare di più, abbiate il coraggio di crescere perché per risolvere i problemi bisogna essere grandi.
  2. Istruire i donatori, educarli a credere in nuovi strumenti per un nuovo non profit.
  3. Sognate in grande. Se le vostre idee non sono ridicole, significa che non state pensando in grande. Qual è il vostro sogno? Con quale “deadline”? La fine della povertà in Italia nei prossimi 10 anni? Il 100% della popolazione alfabetizzata entro i prossimi 10 anni? Non solo Elon Musk ha il diritto di sognare in grande, anche noi: unite le forze per costruire una organizzazione grande abbastanza potente da risolvere i problemi.

Dan Pallotta è stato protagonista insieme a Stefano Zamagni del Non Profit Day organizzato dal Festival del Fundraising (sotto il video integrale). Suo è il Ted sul non profit il più visto al mondo, con mille persone al giorno continuano a vedere il suo video. Un emozionato e orgoglioso Valerio Melandri ha confidato di averci messo «dieci anni a portare Dan Pallotta in Italia». L’obiettivo della giornata? Ambizioso. Cambiare il non profit italiano, farlo «uscire dalla scatola» in cui si è messo, cambiarne la storia.

Dan Pallotta ha il sogno di «cambiare 400 anni di idee sbagliate sulle charity, idee sbagliate sì, che non risolvono i problemi». «Il sistema che abbiamo avuto finora non è stato in grado di risolvere i problemi, quindi non ci si può accontentare di tenere le cose così come sono», ha detto Pallotta. Vuole cambiare questo atteggiamento del donatore, come premessa per cambiare veramente le cose: «Dobbiamo fare outing con i nostri donatori, dire io non credo più a questo approccio, non dovreste farlo neanche voi». La sintesti è in questa frase: «Se pensate che la società non possa cambiare, non cambiate niente delle charity. Ma se vogliamo che qualcosa cambi nella società, dobbiamo cambiare le nostre charity».

Tanti i punti toccati da Pallotta, che ha dato forte carica e ispirazione alle migliaia di persone collegate. «Nel profit se produci più valore ti paghiamo di più, ma non vogliamo che il non profit paghi le persone per produrre di più e per portare un cambiamento sociale… Critichiamo tutti quelli che danno salari alti nel non profit senza chiederci che valore stanno producendo. Paghiamo i coach di football 9 milioni di dollari all’anno in college non profit, ma agli occhi delle persone sembra irrazionale se paghiamo qualcuno 1 milione di dollari per mettere fine alla povertà», ha denunciato Pallotta. Questo genera come potente effetto collaterale il fatto che le persone migliori scappano dal non profit, perché ogni essere umano ha la tensione al self interest e al bene comune ma se nel non profit diamo solo l’opzione bene comune, la gente migliore scapperà: «Nel profit si può avere tutto (perché è sbagliato pensare che nel profit non si contribuisce all’interesse collettivo), nel non profit solo metà, solo l’interesse collettivo». L’altro tabù è quello della pubblicità: «indispensabile per far sì che più persone donino e avere così molti soldi in più per la mia causa. Se non si può fare pubblicità… chi dona? Tutti fanno pubblicità, solo nel non profit vogliamo che si rimanga zitti. Ma come si può crescere in questo modo? Bisogna arrivare al pubblico, renderlo entusiasta del lavoro che fa il non profit, perché ci sono tantissimi problemi giganti che possono essere risolti solo da grandi organizzazioni ma senza poter lanciare appelli le organizzazioni resteranno sempre piccole e i problemi grandi non potranno essere mai risolti. Come può ciò essere buono?». Un esempio: «Cosa è meglio, investire 350mila dollari in un ricercatore che lavora a un progetto di ricerca o investire 350mila dollari in una iniziativa che ti porterà una raccolta fondi da 194 milioni? Ovvio che i soldi poi vanno investiti bene, ma se usati bene i soldi nel non profit si moltiplicano».

Dobbiamo fare outing con i nostri donatori, dire io non credo più a questo approccio, non dovreste farlo neanche voi

Dan Pallotta

Terzo nodo, i costi di gestione. «Chiedere quanto va della mia donazione ai costi generali e quanto al progetto è una domanda sbagliata? Le persone la fanno perché è una domanda semplice e ha una risposta semplice, ma questa risposta non vi dice niente sulla qualità dei servizi che la non profit sta fornendo. Una charity destina il 95% della vostra donazione al progetto, bene, ma siete sicuri che di quel 95% fa un buono utilizzo? Magari stanno sprecando i vostri soldi. È una domanda stupida, che confonde le persone e le porta a decisioni sbagliate. Qual è l’investimento migliore? Quello su una charity che ha il 5% di spese generali ma che non porrà mai fine alla povertà oppure su quella che ha il 40% di spese generali ma che metterà fine alla povertà? Nessuno entra in un negozio di scarpe chiedendo il paio di scarpe prodotto con le spese generali più basse… nessuno. Si vogliono le scarpe migliori e basta. Lo stesso per le charity: vogliamo quella che ha i sogni più importanti, lo staff migliore, l’impatto maggiore. Più si fanno riflettere i donatori sulle loro domande, più loro dicono hai ragione. Spesso si dice che “sono i donatori a volere questo”, ma dobbiamo anche educare i donatori a volere qualcosa di diverso. Se non diciamo loro che stanno facendo le domande sbagliate e che guardano i dati sbagliati, continueranno a farle». Quarto tema, quello del rischio e dei tempi necessari per vedere i risultati: «Il settore for profit di solito corre qualsiasi tipo di rischio, mentre nel non profit se spendiamo soldi in una iniziativa che non funziona le persone poi esprimo giudizi morali e questo allontana dall’innovazione. Non proveranno mai a fare niente di nuovo e non troveranno mai nuovi modi per raccogliere fondi e in questo modo non cresceranno e continueranno a non risolvere i problemi».

Un punto su cui lavorare è aumentare la governance democratica, perché chi lavora nel non profit fa questa scelta perché non accetta il modello tayloristico. Un modello di governance dove le persone possono interagire e l’ultimo arrivato anche se giovane può sottoporre la propria idea al giudizio degli altri. Parlare di una governance interna democratica è questo e nel non profit è possibile

Stefano Zamagni

In Italia nessuno conosce il non profit meglio del professor Stefano Zamagni: è lui che ha risposto a Dan Pallotta, con una straordinaria lectio magistralis. «Occorre capire il contesto, il ragionamento di Dan è vero per il non profit americano, ma il non profit italiano è diverso perché ha radici qualitativamente diverse. Io sono il primo a dire che il nostro non profit è troppo gracile, ma non per le ragioni che ha detto Pallotta».

Zamagni ha sottolineato come l’uomo è mosso all’azione sia da una motivazione estrinseca sia da una motivazione intrinseca, che è il motivo per cui tante persone scelgono di lavorare nel non profit pur sapendo che nel profit avrebbe uno stipendio maggiore. «C’è una remunerazione non monetaria ma intrinseca, la soddisfazione che si prova. Non possiamo ragionare solo in termini monetari. Il problema è che le nostre non profit non investono sul proprio capitale umano, non perché non pagano i loro dirigenti ma perché non lavorano sulla loro motivazione intrinseca». Secondo punto su cui lavorare, per il professore, è aumentare la governance democratica, perché chi lavora nel non profit fa questa scelta perché non accetta il modello tayloristico. Parlare di una governance interna democratica è questo, che nel non profit è possibile». Ecco quindi i tre nodi problematici da cui partire per un vero cambiamento, secondo Zamagni: «investimenti sul proprio capitale umano», «riconoscimento», «un modello di governance dove le persone possono interagire e l’ultimo arrivato anche se giovane può sottoporre la propria idea al giudizio degli altri». «Se vogliamo rilanciare il non profit italiano dobbiamo partire da qui. È possibile perché è stato così per secoli, poi è arrivata l’invasione statalista di un ente pubblico che ha detto “penso a tutto io”».


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