Politica & Istituzioni

Il segreto del ministro Marta Cartabia

La responsabile del ministero della Giustizia sul carcere e sulla pena esprime una cultura e un approccio assolutamente inediti

di Maurizio Crippa

Il 4 ottobre 2018 dieci giudici della Corte Costituzionale entrarono nel carcere di Rebibbia per incontrare i detenuti, per la prima volta. «Abbiamo sentito l’esigenza di rimettere in circolazione lo spirito della Costituzione», disse il presidente, Giorgio Lattanzi. Marta Cartabia era allora vice presidente. Il 15 ottobre, proseguendo quel “Viaggio nelle carceri”, passò un’intera giornata a San Vittore. «I vostri problemi mi faranno compagnia nel lavoro e nella vita», disse. Poi Marta Cartabia della Consulta divenne presidente, prima donna a ricoprire la carica. Nella sua ultima relazione, ci tenne a sottolineare la nuova attenzione portata dalla Corte ai «terreni del diritto penitenziario e dello stesso diritto penale sostanziale», ad esempio sui meccanismi premiali. Ora Cartabia è divenuta ministro della Giustizia, non è la prima donna chiamata a via Arenula ma è senza dubbio uno dei ministri che per preparazione accademica e per sensibilità personale ha più presenti i problemi degli istituti di pena: troppo spesso un vulnus nello stato di diritto, con frequenti condanne da parte della Corte europea, e tradimento della funzione riabilitativa della pena iscritta nella Costituzione.


Il governo Draghi è nato circondato da aspettative quasi messianiche: sull’economia, la gestione sanitaria e il Recovery Plan. Ma dopo i primi entusiasmi è realistico ammettere che non sarà tutto semplice, i miracoli non esistono. Anche l’arrivo di Marta Cartabia è stato salutato con molte aspettative: per il curriculum, la misura, la grande stima di Sergio Mattarella e di Mario Draghi. Si sa che la parte centrale del suo lavoro è già stata disegnata dall’Europa: attraverso il Netx Generation Eu, che rimandando puntualmente alle Country specific recommendation per il 2019-2020 subordina l’erogazione dei fondi europei alle urgenti riforme del sistema giudiziario civile, che spesso coinvolge le aziende, oltre che i semplici cittadini. È qui che si misurerà l’attività del ministro, in un tempo giocoforza breve e su obiettivi da tutti condivisi (almeno a parole).


Ma c’è un altro aspetto del lavoro di Cartabia in cui la sua formazione potrebbe emergere con più libertà (e con il coraggio di scontrarsi con posizioni diverse dentro la maggioranza “all in” che sostiene Draghi). Non è un caso che chiunque in Italia si occupi della drammatica situazione carceraria riponga molte speranze. Veniamo da anni in cui l’ondata giustizialista ha fatto fare passi indietro al sistema di pena, piegando anche i partiti formalmente riformisti al nulla di fatto. Nel 2018 il governo Gentiloni lasciò scadere la delega per la riforma del sistema penitenziario. Poi vennero i governi del “buttare la chiave” di Salvini e di Bonafede, il ministro che si proponeva di abolire le pene alternative perché nella visione troglodita dei Cinque Stelle l’unico modo per scontare una condanna è dietro le sbarre. Durante l’emergenza Covid che sta martoriando le prigioni il precedente governo ha fatto poco o nulla; il sovraffollamento non è stato sanato, le strutture sono quelle che sono e la violenza dentro le mura aumenta.
Basterebbe ricominciare da qui, abbandonando ogni populismo penale. Certo, può significare doversi scontrare soprattutto con la Lega: Salvini ha già rinunciato al sovranismo, difficilmente rinuncerà anche alle sue idee sulla “galera”. Ma di certo è uno dei punti in cui si verificherà la vera indole “europea” di questo governo.


Ma c’è un lavoro più ampio da ricominciare. In un libro scritto a quattro mani con il criminologo e saggista Adolfo Ceretti, “Un’altra storia inizia qui. La giustizia come ricomposizione, frutto di riflessioni attorno alle idee di giustizia, di pena, di riconciliazione del cardinale Carlo Maria Martini” (qui una nota di Riccardo Bonacina), Cartabia aveva espresso «la convinzione che l’uomo può sempre essere salvato e che la pena deve essere volta a sostenere un cammino di recupero». E, citando Martini, la fiducia in un sistema carcerario «che assicuri l’armonia dei rapporti sociali; una cura che salvi insieme assassino e città». Sarebbe interessante anche solo provare.


Foto: Ag. Sintesi


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