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Accordi Ue-Turchia, 5 anni dal patto che intrappola i richiedenti asilo

Il 18 marzo 2016 sono iniziate le politiche di contenimento volte a controllare gli arrivi dei profughi dalla Turchia alle isole greche dell’Egeo. «Il patto UE-Turchia è un accordo disumano», dice Apostolos Veizis, direttore esecutivo di Intersos Hellas. «Continua ad essere un enorme passo nella direzione sbagliata, in quanto formalizza un sistema che minaccia il diritto di asilo, ignorando completamente le esigenze umanitarie e di protezione. Non ha mai funzionato e non funzionerà mai. Questa è una politica che ha portato solo dolore, tristezza e miseria a persone già traumatizzate, perpetuando una situazione insopportabile».

di Redazione

Domani, 18 marzo, ricorre il quinto anniversario dell’accordo tra UE e Turchia per fermare i flussi di richiedenti asilo dalla Turchia all’Europa. Il 18 marzo 2016 sono iniziate le politiche di contenimento volte a controllare gli arrivi dei profughi dalla Turchia alle isole greche dell’Egeo. Sulla base di questo patto, tutti i migranti la cui domanda di asilo viene respinta, vengono rimandati in Turchia. I campi delle Isole Egee sono diventati centri di detenzione, dove migliaia di richiedenti asilo sono intrappolati, in attesa – anche per anni – di ricevere un responso, con effetti devastanti sulla loro salute mentale.

Avrei preferito morire nel mio Paese, sotto le bombe, invece di morire tutti i giorni in questo campo”, è una delle frasi che in questi mesi psicologi e psicologhe di Intersos hanno ascoltato a Lesbo, durante le sessioni di supporto psicologico rivolto alle donne che vivono nel campo temporaneo di Mavrovouni. Queste donne sono bloccate sull’isola ormai da mesi o anni. Si sentono intrappolate, senza speranza, si vergognano. I pensieri suicidi e i comportamenti autodistruttivi sono molto diffusi, esacerbati dalle dure condizioni di vita nel campo, che producono un forte senso di insicurezza, ansia e oppressione. La morte è percepita come un sollievo, una via d’uscita dalla loro prigionia.

Perché il campo, per loro, è una prigione, dove le attuali misure di isolamento limitano ulteriormente lo spazio già molto limitato in cui devono vivere. Trascorrono la maggior parte del tempo rinchiuse nella loro tenda, in attesa del passaggio di un agente che le informi della risposta alla loro domanda di asilo. Quando l’agente finalmente arriva, però, può essere la fine per la famiglia di queste donne. Secondo la politica migratoria in vigore, infatti, ogni persona ha un numero di caso diverso ed è sottoposta a una procedura di asilo diversa, anche i membri della stessa famiglia.

Zahra, 68 anni, ha dovuto rinunciare già 3 volte a essere trasferita in un appartamento ad Atene. Non può lasciare suo figlio, Ayoub, che è stato gravemente ferito a Moria, e ora non può camminare. Di tutte le pazienti che Intersos segue, il 70% ha subito episodi di violenza di genere almeno una volta nella vita. Per le donne che hanno subito un’esperienza traumatica, vivere nel campo significa sentirsi costantemente a rischio. Nel campo non è possibile garantire un livello di sicurezza di base e gli aggressori possono accedere facilmente ai loro alloggi. Questo provoca nelle donne una costante ansia e paura che simili incidenti possano ripetersi, aggravando le loro condizioni di salute mentale.

Farida, 22 anni, è stata violentata a Moria, davanti ai suoi due figli. Non era la prima volta che un uomo abusava di lei. Per questo era scappata dal suo paese, in Europa cercava sicurezza. Ora ha chiesto di essere rimpatriata in Afghanistan. Molte donne sposate subiscono quotidianamente violenza domestica da parte dei loro mariti. Giustificano il comportamento abusivo con la miseria delle condizioni di vita a cui sono sottoposti. La violenza è spesso denunciata da donne che lottano per trovare un equilibrio nella loro vita personale e che si trovano a replicare gli stessi modelli violenti sui loro figli, esponendoli ad abusi e abbandono.

Mariam è stata salvata da suo fratello Masoud, che ha affrontato il loro patrigno mentre tentava di abusare di lei. Questo episodio ha segnato per sempre la loro vita. Sono scappati dall’Afghanistan, insieme, raggiungendo Lesbo anni dopo. Ora, Masoud presenta i sintomi della psicosi. Sta aspettando da 6 mesi di ricevere la decisione sulla sua domanda d’asilo. Ha già rifiutato due volte di essere trasferita sulla terraferma. Presenta sintomi della Sindrome Post Traumatica (PTSD) e avrebbe bisogno di una terapia psicologica. Già durante la seconda sessione, però, ha informato il suo psicologo che non desidera più continuare la terapia. “Se mio fratello non può essere aiutato, non voglio essere aiutata neanche io”.

Sono queste donne le vittime delle politiche migratorie europee, politiche di contenimento basate sull’approccio degli hotspot, che negli anni non hanno fatto altro che intrappolare le persone in un’attesa senza fine, privandole della basilare dignità umana e costringendole a rivivere gli stessi traumi. Sono 8.596 le persone attualmente bloccate sull’isola di Lesbo. “L’Europa non può essere solo un’altra tappa nel doloroso percorso migratorio”, dicono dall'organizzaizone umaniatria.

“Il patto UE-Turchia è un accordo disumano, che ha portato dolore, morte e sofferenza per migliaia di vite umane intrappolate qui in Grecia – afferma Apostolos Veizis, direttore esecutivo di Intersos Hellas –Oggi, 5 anni dopo, facciamo i conti con l’enorme portata della crisi umanitaria creata dalle politiche dell’UE nelle isole greche. Questo accordo rappresenta la persistente volontà dei governi europei di continuare a portare avanti misure di contenimento, invece di trovare soluzioni umanitarie praticabili. Tutto ciò che fanno queste politiche è aumentare la miseria delle persone e spingerle verso percorsi migratori più pericolosi. L’accordo UE-Turchia continua ad essere un enorme passo nella direzione sbagliata, in quanto formalizza un sistema che minaccia il diritto di asilo, ignorando completamente le esigenze umanitarie e di protezione. Non ha mai funzionato e non funzionerà mai. Questa è una politica che ha portato solo dolore, tristezza e miseria a persone già traumatizzate, perpetuando una situazione insopportabile”.

“Ribadiamo la necessità che l’Europa si impegni a portare avanti nuove politiche migratorie, incentrate sulla protezione e sull’integrazione delle persone, assicurando l’applicazione da parte degli Stati membri della legislazione in vigore in tema di ricongiungimenti familiari”, aggiunge Cesare Fermi, direttore della Regione Europa di Intersos . “L’Europa – chiarisce Fermi- non può essere solo un’altra tappa nel doloroso percorso migratorio e ha il dovere di garantire a tutti il rispetto dei diritti umani fondamentali che sono alla base della sua esistenza”

Credit Foto Martina Martelloni, Silas Zindhel