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Riscoprire, nella lontananza, il valore della prossimità

La pandemia ci ha costretto a imparare nuovi modi di stare insieme, di essere vicini e anche di essere più autentici, scoprendo modi di vicinanza anche nella distanza. Abbiamo parlato dell’isolamento e della distanza in termini solo negativi ed è difficile vederne gli aspetti positivi, ma credo che qualcosa di positivo si possa recuperare se nella distanza fisica si tiene viva la relazione esistenziale.

di Vanna Iori

Il Covid ha stravolto il concetto di distanza/vicinanza: a causa delle restrizioni necessarie per il contenimento del virus, infatti, abbiamo vissuto molti mesi isolati, privati delle abitudini relazionali nello strutturato complesso delle nostre relazioni sociali. Abbiamo dovuto scoprire nuovi modi di intendere la prossimità e la vicinanza. Gli esseri umani, infatti, hanno un “cervello sociale” che ha bisogno di contatti umani proprio come abbiano necessità di cibo.

Prima della pandemia il “sedersi accanto” appariva come un gesto inconsueto, quasi “anomalo” nel nostro vissuto del tempo della frettolosità che sempre più incalza le nostre vite e non conosce o non prevede il concetto di sosta. Il tempo dei contatti e delle relazioni moltiplicati in modo esponenziale come se, solo nell’incontro con gli altri, anche superficiali o indifferenti, si trovasse la ragione di noi stessi. E invece per sedersi accanto occorre innanzitutto fermarsi, sapere stare accanto ad un’altra persona e avere la capacità di guardarsi dentro e scoprire fragilità e desideri. Sedersi accanto è una scelta. E dà anima alle relazioni. A quelle relazioni che contano, che sono importanti perché ci chiamano alla sosta e all’ascolto.

In questi mesi abbiamo visto in tutta la sua forza che la vita, il coraggio e la speranza si apprendono attraverso i vissuti. La solitudine non ha impedito questa acquisizione di conoscenza ma ci ha fornito altri strumenti che si sono nutriti di una vicinanza che non è solo fisica e ci ha consentito di riacquisire un lessico e una significatività dei sentimenti e della vicinanza del cuore. Penso alle persone sole nelle loro case che sono diventati contenitori di esistenza, ai bambini e ragazzi lontani dalla classi e dagli spazi aperti o della socialità, agli operatori sanitari che hanno esercitato il loro lavoro di cura con una acuita consapevolezza della distanza di cui le mascherine e i dispositivi di protezione sono diventati una rappresentazione plastica. Siamo stati costretti a ripensare i nostri sentimenti, a misurarci con le nostre paure e a rielaborare il concetto di spazio e confine ma, soprattutto, a prestare attenzione a ciò che proviamo, ossia a ciò che siamo. Si tratta di una condizione indispensabile per tessere le relazioni di autentica vicinanza.

Per questo, ritengo che la pandemia ci abbia costretto a imparare nuovi modi di stare insieme, di essere vicini e anche di essere più autentici, scoprendo modi di vicinanza anche nella distanza e riscoprendo la qualità della relazione che si instaura con sé stessi e con gli altri. Abbiamo parlato dell’isolamento e della distanza in termini solo negativi, e certo è difficile vederne gli aspetti positivi, ma credo che qualcosa di positivo si possa recuperare se nella distanza fisica si sia tenuta e si tenga viva la relazione esistenziale.

Siamo stati messi, nostro malgrado, nelle condizioni di comprendere la risonanza del sentimento dell’altro in noi e condividere la sua umanità. È chiaro che per riuscirci dobbiamo partire dalla comprensione della nostra umanità. Stare presso l’altro implica, quale condizione necessaria, imparare a stare presso di sé. La competenza preliminare per la cura e il pensiero dell’altro e di sé è l’empatia.

Questi mesi ci hanno messo di fronte alla possibilità di vivere questo vissuto e il futuro ci consentirà un’elaborazione che cambierà in positivo la trama delle relazioni e ci spingerà a scoprire il valore del sedersi accanto. E’ proprio di fronte alla problematicità dell’esperienza, agli interrogativi della vita, che avvertiamo in maniera più imperiosa il bisogno di fermarci e pensare. Il sentimento di precarietà, di incompiutezza, di provvisorietà, di incertezza, fanno nascere in noi il bisogno di fermarci. Ed è qui che si impara l’alfabeto di una nuova competenza emotiva, fondato sul saper conoscere, accettare, ascoltare, elaborare, esprimere il proprio mondo interiore, e a “sentire l’alterità e la sua prossimità” rispettandone e accogliendone la dignità e il valore.

Coltivare la vita emotiva è indispensabile per poter aiutare gli altri ad aver cura dei loro sentimenti, a elaborarli per farne strumenti di lettura dell’esperienza, per non cadere nel sapere catalogante che archivia le persone come cose, senza sollevare lo sguardo sui loro vissuti e su ciò che potremmo apprendere dall’esperienza vissuta degli altri. Forse la pandemia spingerà a percorrere con maggiore forza questa strada, quella che si fonda sull’esigenza di senso, sulla relazione esistenziale intesa come essere-con, sulla capacità di assumere il limite come consapevolezza del proprio “stare” nella relazione, sulla capacità di non rinunciare alla progettualità, anche nelle situazioni che appaiono prive di margini per il poter-essere e su un nuovo modo di stare insieme.

Photo by Giuseppe Argenziano on Unsplash


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