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L’inclusione scolastica compie 50 anni (e ha bisogno della citizen science)

Il 30 marzo 1971, con la legge 118, prendeva il via l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità. Dario Ianes: «Rileggendo la legge oggi si ha una sensazione doppia: siamo andarti avanti e insieme è chiaro che ci portiamo ancora dentro tanti residui di quella stessa mentalità, che frenano ancora l’inclusione. Forse è tempo per un Osservatorio indipendente sull'inclusione, tramite la citizen science»

di Sara De Carli

Cinquant’anni fa, il 30 marzo 1971, con la legge 118 art. 28 prendeva il via l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità. «Leggendo oggi quel testo di legge ci si accorge di quanto sia cambiato nel nostro Paese e insieme di quanto sia rimasto troppo simile ad allora», dice Dario Ianes, ordinario di Pedagogia e Didattica Speciale all'Università di Bolzano.

Era la prima volta che l’Italia imboccava la via dell’inclusione, con gli alunni disabili che vengono «inseriti» nella scuola comune. Una scelta poi confermata dalla più famosa legge Falcucci, la 517 del 4 agosto 1977. Il testo della legge 118/71 – poi ovviamente superato da leggi successive – recitava così: «Ai mutilati e invalidi civili che non siano autosufficienti e che frequentino la scuola dello obbligo o i corsi di addestramento professionale finanziati dallo Stato vengono assicurati:
a) il trasporto gratuito dalla propria abitazione alla sede della scuola o del corso e viceversa, a carico dei patronati scolastici o dei consorzi dei patronati scolastici o degli enti gestori dei corsi;
b) l'accesso alla scuola mediante adatti accorgimenti per il superamento e la eliminazione delle barriere architettoniche che ne impediscono la frequenza;
c) l'assistenza durante gli orari scolastici degli invalidi più gravi.
L'istruzione dell'obbligo deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica, salvi i casi in cui i soggetti siano affetti da gravi deficienze intellettive o da menomazioni fisiche di tale gravità da impedire o rendere molto difficoltoso l'apprendimento o l'inserimento nelle predette classi normali.

Sarà facilitata, inoltre, la frequenza degli invalidi e mutilati civili alle scuole medie superiori ed universitarie.
Le stesse disposizioni valgono per le istituzioni prescolastiche e per i doposcuola».

In quale contesto è nata la legge 118/71?
Un contesto molto diverso, si usciva dal ‘68. Gli anni ‘70 sono stati un laboratorio incredibile per i diritti civili, basti pensare alla legge Falcucci nel 1977 e alla Basaglia nel 1978, è stato un periodo irripetibile. Lì c’è l’origine di tutto un percorso che in maniera evolutiva arriva fino a noi oggi, uno sviluppo interessante ma che non è ancora compiuto. Mi ha colpito nel rileggere il testo della legge sentire quel taglio pesantemente medico e assistenziale, ci si accorge che sono passati 50 anni e che tante cose sono state superate, non solo a livello lessicale ma anche di visione di dell’inclusione. Cinquant’anni non sono passati per niente, senza cambiare le cose.

Però…
Però dall’altro lato ad essere sinceri ci portiamo ancora il residuo di quella mentalità gravata dal peso del deficit, della grave disabilità… L'istruzione dell'obbligo deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica, salvi i casi in cui i soggetti siano troppo gravi. È una specie di libertà condizionale che ha aperto a tutte quelle misure che purtroppo e troppo ancora oggi gli alunni con disabilità “più gravi” fuori dalle classi, nell’aula di sostegno, delegati all’insegnante di sostegno. Quella frase ha un po’ segnato la nostra storia. Se non ci fosse stata, se la legge avesse osato un’opzione radicale… credo che le cose sarebbero diverse oggi. È arbitrario dire dove e quando per un alunno non è possibile stare nella classe comune. E tutto il portato della certificazione, della commissione medica che ci ritroviamo ancora nel recentissimo decreto 66 viene da lì. Rileggendo la legge oggi, quindi, si ha una sensazione doppia: da un lato viene da dire guarda un po’ quanto siamo andarti avanti e dall’altro è chiaro che ci portiamo ancora dentro tanti residui di quella stessa mentalità, che frenano ancora l’inclusione. Peraltro anche nella 517, se la rileggiamo, troviamo il germe di una “degenerazione” se vogliamo chiamarla così: si parla di insegnanti specializzati, cosa che poi ha dato origine al sostegno, ma si parla anche di un servizio sociopiscopedagogico che nelle scuole invece non si è mai visto. C’erano potenzialità per fare due cose e se ne è fatta una sola.

Stiamo parlando tanto in queste settimane di inclusione calpestata, con bambini e ragazzi con disabilità che stanno frequentando le lezioni in presenza da soli, con i compagni in DAD, nonostante i chiarimenti del ministero….
Nelle scuole sta succedendo di tutto e di più, sento racconti di chi dice “da me sono da soli” e altri che dicono “da me lo fanno bene”… Non c’è omogeneità sul territorio, il che va anche bene perché se una scuola si inventa cose buone deve poterlo fare, ma serve anche mettere un paletto minimo. Ma non c’è monitoraggio, cosa che è una delle malattie croniche del nostro sistema, non abbiamo dati in tempo reale e non sappiamo cosa succede per davvero. È lo stesso problema che riguarda anche l’altro recente acceso dibattito, quello sul rischio legato all’esonero. Forse è tempo di far nascere un osservatorio indipendente sull’inclusione in cui si raccolgono quotidianamente esperienze positive e negative nell’ottica della citizen science, dando al cittadino il ruolo di documentatore della realtà che mette informazioni in un sistema che renda poi pubblico quel che accade sui singoli territori. Avremmo la mappa che permetterebbe poi di apportare le correzioni necessarie. Io sono sempre più ossessionato dalla realtà, non mi fido più né della retorica né dei dati che non ci sono e che dall’alto non arriveranno mai.

D A V I D S O N L U N A on Unsplash


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