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Se la transizione verde dimentica le donne

Dovremmo aggiungere un ottavo criterio ai sette che la Commissione Ue adotterà per valutare i Pnrr dei singoli 27 Stati membri: la parità di genere. Secondo Sergio Gatti «l’Unione europea ci guadagnerebbe in termini di efficienza. Non solo di equità, ma di efficienza»

di Sergio Gatti

Se indossassimo l’occhiale della parità di genere nel costruire l’impalcatura dei Recovery plan, se aggiungessimo un ottavo criterio ai sette che la Commissione Ue adotterà per valutare i Pnrr dei singoli 27 Stati membri, l’Unione europea ci guadagnerebbe in termini di efficienza. Non solo di equità, ma di efficienza.

Questa è la notizia che ci porge Azzurra Rinaldi. «Investire sulla transizione verde e sulla transizione digitale tende ad incrementare le disuguaglianze di genere sul mercato del lavoro», afferma la Rinaldi, ricercatrice e docente di politica economica all’università Unitelma La Sapienza, ed autrice insieme alla collega economista Elisabeth Klatzer della Vienna University of Economics and Business, di uno studio sui piani della Commissione Ue per l’utilizzo dei fondi del Recovery and Resilience Facilities.

La crisi derivante dalla pandemia di Coronavirus ha avuto effetti rilevanti non solo sotto il profilo sanitario, ma anche sotto quello economico, in particolar modo sulle donne. Intanto le donne rappresentano la maggioranza di chi lavora nel settore della sanità che evidentemente è il luogo dove maggiore è il rischio di contrarre il virus. Inoltre, osservano le due economiste, «le donne si fanno carico della maggior parte del lavoro di cura non retribuito» e rischiano più degli uomini di restare disoccupate. In media, nella Ue solo il 45% del lavoro delle donne è retribuito (siamo al 67% del lavoro degli uomini) mentre il 75% del lavoro di cura informale viene svolto dalle donne. C’è di più: le donne che hanno bambini sotto gli 11 anni riferiscono di non riuscire a dedicare il tempo che desiderano al lavoro retribuito.

Rinaldi e Klatzer si spingono più avanti e alzano lo sguardo, cercando di capire se le priorità del Recovery plan conferma o riduce l’insostenibile perdita di efficienza e l’irrazionale spreco di energie che deriva dalla non adeguata presenza delle donne nel mondo del lavoro.

Ecco quattro passaggi rilevanti.

  1. Investendo risorse consistenti, ad esempio, il 2% del Pil in costruzioni o in servizi di cura avremmo impatti sull’occupazione femminile molto diversificati. La media Ue sarebbe la seguente: più 3,5% di occupati in generale entro il 2027 se si investe in costruzioni, di cui 2,5% posti di lavoro per gli uomini e 1% per le donne; più 6,5% complessivo se si investe in servizi di cura, di cui + 2% per gli uomini e + 4,5% per le donne. In Italia, l’incremento totale di occupati nel settore dei servizi di cura sarebbe complessivamente del 5,5%, così distribuiti: + 4% di donne e +1,5% di uomini. Nel settore delle costruzioni invece, avremmo un incremento di occupati del 2,1% di cui 1,8% uomini e 0,3% donne.
  2. I settori dell’economia che risultano i più colpiti dal Coronavirus sono cinque: educazione/istruzione, salute e lavori sociali, servizi domestici, servizi di alloggio e ristorazione (filiere del turismo), arte-cultura-svago. L’incidenza di donne sul totale delle persone che lavorano nei primi tre settori supera il 75%, mentre negli ultimi due è di circa il 50%. Se ne deduce che i settori più colpiti sono in modo particolare quelli in cui il lavoro è svolto prevalentemente dalle donne.
  3. Ora, i settori sui quali si concentrano prevalentemente i fondi europei (sussidi o prestiti) sono però quelli caratterizzati da una forza-lavoro in prevalenza maschile: costruzione, ovvero manufatti-opere pubbliche (oltre 85%); agricoltura (oltre il 55%); energia (circa il 75%); trasporti (attorno al 75%); information and communication (digitalizzazione) (quasi il 65%).
  4. Che fare? Poiché i fondi vanno spesi efficacemente e un parametro assumibile in questo senso può essere il “principio moltiplicativo”, se non si corregge il tiro — affermano la Rinaldi e la Klatzer — «il loro impatto in termini di moltiplicazione di reddito ed occupazione sarà inferiore rispetto alle potenzialità».


Tutto ciò non è soltanto un problema delle donne e non è neanche soltanto una questione di equità. L’Istituto europeo per l’equità di genere (Eige) ha calcolato che il costo per la mancata occupazione femminile vale in Europa circa 370 miliardi di euro all’anno. La metà dell’intero Next Generation Eu in un anno. Siamo ancora in tempo per controbilanciare questo “squilibrio” strutturale. La ripresa alimentata dai Fondi europei e dai nuovi titoli di debito che si dovranno emettere non può fare a meno del pieno coinvolgimento delle donne. È una questione di interesse. Un interesse di tutti, sia economico sia sociale. E anche demografico. Perché laddove ci sono tassi di occupazione femminile più alti cresce anche la fertilità e nasce un maggior numero di bambini.


*Sergio Gatti, direttore di Federcasse
Foto di Daria Shevtsova da Pexels


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