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Occupazione femminile: meno donne lavorano, più l’Italia diventa povera

«Dobbiamo investire in nidi pubblici, asili, scuole a tempo pieno. Il carico di cura non può essere tutto sulle spalle delle donne», dice Linda Laura Sabbadini, presidente dell’Engagement Group Women 20, «L’8 marzo? È un’occasione per ribadire la forza delle donne, sono loro che tengono in piedi il Paese»

di Redazione

I numeri non mentono mai. Ma che dicono sulla situazione delle donne italiane in relazione al lavoro? Che realtà ci restituiscono? Ecco, nel nostro Paese siamo davanti ad uno scenario drammatico. Qualche dato: siamo penultimi in Europa per occupazione femminile, ultimi se consideriamo la fascia d’età tra i 25 e 34 anni. Una donna su cinque smette di lavorare dopo aver avuto un figlio.
Nel mese di dicembre 2020 l’Istat ha certificato una flessione complessiva dei posti di lavoro dello 0,4% rispetto al mese di novembre, che significa: 101 mila occupati in meno, ma il 98% dei posti di lavoro persi era di donne, 99mila unità. Se allarghiamo lo sguardo a tutto il 2020 la situazione non migliora: su 440mila posti di lavoro persi, 312mila coinvolgono l'occupazione femminile che è del 20% più bassa rispetto a quella degli uomini. Eppure in Italia il 51% della popolazione è donna e in media le donne sono più istruite degli uomini.

«La disuguaglianza di genere in Italia», spiega Linda Laura Sabbadini, pioniera europea delle statistiche per gli studi di genere e presidente dell’Engagement Group Women 20, «passa attraverso tutte le altre disuguaglianze, contrastarla significa combattere anche le altre. In modo particolare si manifesta nelle barriere di accesso, permanenza e sviluppo delle carriere lavorative delle donne. Le donne entrano più tardi nel mondo del lavoro rispetto agli uomini».

«A parità di posizione guadagnano meno degli uomini e dopo l’arrivo di un figlio capita spesso che lascino il lavoro o rientrino con un contratto part-time. E questi sono tutti elementi che contribuiscono a penalizzare e ritardare i loro percorsi di carriera». Le disuguaglianze si accentuano con il passare degli anni tanto che «quando è arrivato il momento di andare in pensione il loro reddito da pensione è più basso del 40% rispetto agli uomini».

Ma in Italia se ne parla, straparla e riparla, eppure: «Non si agisce», dice Sabbadini. «Non si investe in infrastrutture, in nidi pubblici che dovrebbero passare dal 25% al 60%, non si investe nella scuola a tempo pieno, nella cura e nell’assistenza agli anziani e ai disabili. Ma queste sono questioni fondamentali. Se si promuovesse un welfare della cura, diminuirebbero le disuguaglianze e si alleggerirebbe il carico sulle spalle delle donne. Queste misure – potentissime – farebbero fare un balzo in avanti in termini di benessere non solo a loro, ma a tutta la cittadinanza. Se crescerà l’occupazione femminile diminuirà la povertà e aumenteranno i redditi delle famiglie della classe media».

Perché il Paese non riesce a costruire un welfare della cura? «In Italia», continua Sabbadini, «le politiche sociali non sono considerate allo stesso livello delle politiche economiche. Anche la scelta del nuovo Governo Draghi di frammentare le politiche sociali in 5 ministeri diversi ci espone al rischio di non avere una regia centrale in un momento in cui le disuguaglianze sono altissime»…


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