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Welfare & Lavoro

Riconquistiamo il senso del lavoro

La perdita di senso che si accompagna alla condizione di non lavoro (ma anche a quella di lavoro sottopagato, sfruttato, alienato) è uno degli argomenti più censurati del nostro tempo. Se è vero che dobbiamo "tentare l'Esodo" dalla società del lavoro e dello sfruttamento, e altrettanto vero che dobbiamo capire come trovare un senso alla vita che sia svincolato dal lavoro e dalle sue mitologie. Altrimenti, rischiamo di rimanere schiacciati dalla logica dello scarto

di Pietro Piro

Le mie osservazioni maturano in un ambito particolare: la relazione educativa in contesti di marginalità adulta. Questa osservazione preliminare mi consente di chiarire "la fonte" del mio ragionare (e, sé vogliamo, anche il suo carattere parziale).

La prima volta in cui ho affrontato le conseguenze della prolungata disoccupazione è stato nella ricca provincia bolognese. Paradossalmente, in un contesto sociale in cui il tasso d'occupazione è tra i più alti del nostro Paese. Eppure, ben nascosti in un diffuso benessere, si potevano incontrare tante persone escluse dal mondo del lavoro. Persone che in passato avevano conosciuto lavoro, prestigio e posizione sociale e che, in seguito a problemi di vario genere (fallimenti aziendali, problemi familiari, salute, crolli psicologici), si ritrovavano senza più lavoro.

Entrando in contatto quotidiano con queste persone e provando, con i mezzi disponibili, a re-inserirli nel tessuto produttivo, ho maturato la convinzione che esiste un legame forte tra perdita del lavoro e perdita del senso dell'esistenza. Per alcuni, la perdita del lavoro ha rappresentato un vero e proprio dramma esistenziale. Non tutti sono capaci di ri-definirsi ad ogni cambio di stagione e tanto meno, hanno la capacità di acquisire competenze e professionalità nuove in poco tempo. Inoltre, in un contesto lavorativo sempre più esigente, performante, escludente, è sempre più facile perdere terreno e ritrovarsi indietro. Queste osservazioni valgono ancora di più per le donne continuamente esposte a un maschilismo che, nei fatti, le esclude e le mortifica di continuo.

Chi perde il lavoro, se non è in grado di rientrarvi in poco tempo, rischia di attraversare fasi progressive di perdita d'interesse per la propria vita, fino alle conseguenze estreme del suicidio o della violenza nei confronti di chi si ritiene responsabile della propria disfatta.

Smarrire il senso

La perdita di senso che si accompagna alla condizione di non lavoro (ma anche a quella di lavoro sottopagato, sfruttato, alienato) è uno degli argomenti più censurati del nostro tempo. Stona troppo con la narrazione di un mondo produttivo, scientifico e tecnologico in grado di regalare benessere diffuso. Eppure – e la mia è testimonianza diretta — in questo mondo del cosiddetto "benessere" tanti, troppi, sono gli esclusi, gli scartati, gli abbandonati a sé stessi. Persone che private del lavoro sono abbandonate alla loro capacità di "trovare un senso" a giornate vuote e poverissime.

Nella gola del leone

Successivamente, in seguito al mio trasferimento a Termini Imerese, mi sono trovato ad operare in un contesto sociale completamente diverso da quello bolognese.

Termini Imerese aveva conosciuto in passato alti tassi d'occupazione e uno sviluppo socio economico notevole rispetto ad altre città del Sud grazie alla presenza dello stabilimento FIAT e del suo indotto.

In seguito alla chiusura dello stabilimento, tantissime persone si sono ritrovate senza lavoro. Alcuni, ancora oggi, percepiscono la cassa integrazione, altri, non rientrando nei parametri dell'assistenza, non hanno avuto più nessuna entrata fissa.

Molti sono emigrati. Quelli che sono rimasti, hanno provato a sopravvivere con le poche risorse disponibili sul territorio.

La deindustrializzazione è un fenomeno complesso. Parte dalla chiusura fisica dei cancelli e arriva in fondo all'inconscio del singolo lavoratore. Ci si sente parte di un enorme fallimento: politico, sociale, industriale, economico, morale. Anche sé si prova ad andare avanti, ci si sente "orfani" di un mondo che non esiste più (ed è chiaro che non potrà più esistere). In questo contesto ci si chiede spesso: che senso ha avuto lavorare tutti questi anni sé poi tutto finisce così? E ancora: che senso ha ricevere ogni mese un sussidio senza nessuna vera occasione di rientro a lavoro?

Alla perdita di senso del singolo si associa la perdita di senso e identità di un'intera comunità.

Il "contesto" in cui opero oggi è caratterizzato da un altissimo tasso di disoccupazione, basso livello d'istruzione, tessuto produttivo incapace di assorbire la presenza della forza-lavoro.

La domanda di senso si associa all'incapacità quasi "strutturale" di accedere all'autonomia. Si definisce così un impedimento alla maturazione completa della persona con conseguente impossibilità di sviluppare un senso distintivo della propria esistenza.

Un senso deformato

Incontrando poi i giovani nel lavoro d'orientamento, emerge la difficoltà di trovare un senso all'esperienza del lavoro perché la si ritiene essenzialmente incapace di soddisfare i desideri di vita e le proiezioni di benessere desiderate.

Nei giovani c'è una frattura tra desiderio e mezzi concreti per realizzarli. Il lavoro-fatica e stato sostituito dal lavoro-sogno, alimentato dalle retoriche perverse di personaggi molto noti in grado di guadagnare cifre esorbitanti "semplicemente" vendendo il proprio "carattere".

Una propaganda capillare e devastante, che demolisce alla radice il legame tra lavoro e sforzo, tra lavoro e società, tra lavoro e responsabilità.

I più esposti a questa retorica sono proprio i giovani delle classi più povere e marginali che sognano esistenze prive di ogni forma di lavoro ma – inspiegabilmente- immerse in un benessere illimitato.

Con questi giovani occorre lavorare sul "senso" complessivo dell'esperienza per ricondurla al suo divenire concreto. Uno sforzo titanico per chi educa "senza nascondere" .

Un nuovo senso al lavoro

Tutte le mie esperienze educative mi hanno condotto a ritenere che il lavoro non è solo una fonte di guadagno.

È molto di più. È essere collocati in una dinamica di relazioni sociali che costruisce il senso dell'essere-persona. Il lavoro produce il senso di appartenenza e di sostanziale adeguatezza al tempo in cui si vive. Essere privati del lavoro significa non riuscire più ad accedere alla riserva di senso che indirizza il proprio agire quotidiano. È una forma di violenza che può essere devastante. Non basta una cifra mensile per ritrovare il senso di un esperienza di vita interrotta. Soprattutto sé non è accompagnata da percorsi di qualificazione e di studio.

Se è vero che dobbiamo "tentare l'Esodo" dalla società del lavoro e dello sfruttamento, e altrettanto vero che dobbiamo capire come trovare un senso alla vita che sia svincolato dal lavoro e dalle sue mitologie. Altrimenti, rischiamo di rimanere schiacciati dalla logica dello scarto che ci vede tutti, prima o poi, vittime di un ingranaggio che avanza divorando corpi e menti.


Questo intervento è estratto dal numero di Vita magazine di marzo intitolato "Il lavoro da fare"


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