Education & Scuola

E se ci facessimo aiutare dalle ragazze e dai ragazzi a ripensare la scuola?

Il Piano Scuola Estate provoca diverse reazioni: c’è chi lo considera un banco di prova per innovare le politiche pubbliche partendo da una missione forte, chi inopportuno a fronte dei pesanti problemi ancora irrisolti del mondo scolastico. Ma qualcuno ha chiesto a studentesse e studenti? Se li si coinvolgesse nella co-progettazione di queste attività e più in generale del ripensamento della scuola, non sarebbe davvero innovazione sociale?

di Francesco Mannino

E insomma, ora c’è questo Piano Scuola Estate. Un piano ambizioso che, usando le parole del Ministero dell’Istruzione, intende favorire la partecipazione diretta di ragazzi e ragazze nella costruzione del sapere, ripristinare la normalità di quella socialità almeno in parte perduta, e creare scenari di solidarietà e fiducia negli altri. Più di mezzo miliardo di euro per connettere l’anno scolastico in corso a quello successivo, con il coinvolgimento di famiglie e organizzazioni del terzo settore.

Ne parlavo animatamente l’altro giorno con Grazia, insegnante delle superiori qui a Catania. Mi faceva leggere un articolo di un preside molto arrabbiato, che lei condivideva: «oltre ad un piano “estate” – mi diceva – serve prima di tutto un piano “autunno”. La scuola è stremata e abbiamo bisogno di risolvere l’ordinario, prima di ogni altra cosa».

Da un lato c’è quindi un Piano Scuola Estate che investe un bel po’ di risorse per affrontare lo straordinario strappo subito da studenti e studentesse, scommettendo su stagioni inedite (l’estate appunto) e su attori inediti (terzo settore e famiglie: insomma, la comunità educante); dall’altro c’è una parte della scuola che non ne coglie appieno la logica, o che la coglie rifiutandola e rivendicando una gran fame di normalità negata e il bisogno improcrastinabile di intervenire sull’ordinarietà di una scuola in sofferenza. Ci sarebbe da chiedersi che ne pensano le ragazze e i ragazzi.

Da operatore del terzo settore che per più di un decennio ha visto la propria associazione impresa sociale intrecciarsi ai percorsi formativi ordinari delle scuole di ogni ordine e grado sui temi del patrimonio culturale, mi viene da dire che il Piano Scuola Estate sembrerebbe mosso da una giusta missione (rimarginare ferite, ricucire strappi, rafforzare relazioni) ma con dei tempi che non consentono di cavarne la massima efficacia possibile. E spiego il perché.

Il Piano Scuola Estate è ben pensato nella missione, ma la sua traduzione in azioni efficaci ad attuarla è molto complessa, sia perché viene annunciato in un periodo di estrema tensione del sistema scolastico, nel pieno di un secondo anno di profondo stravolgimento, di divari ancora più esasperati e di fragilità esplose, sia perché rischia di assommarsi ad un’imponente mole di attività extracurriculari (PON, PCTO, etc.) che spesso sono vissute dai ragazzi come una significativa sottrazione di tempo allo studio ordinario, traducendosi quindi in un aumento del carico di attività riconducibili al capitolo “scuola” della loro giornata.

Vero è che l’adesione al Piano Scuola Estate sarà su base volontaria, ma se vogliamo che possa essere una occasione di vero empowerment, forse andava pensato coinvolgendo maggiormente studenti e insegnanti – e perché no, enti del terzo settore – già nelle fasi preliminari della sua architettura. La coprogrammazione e la coprogettazione diventano elementi sempre più istituzionalizzati nel rapporto tra pubblico e privati non profit, e quando si includono nella co-progettazione anche i “destinatari” delle attività già dall’inizio, la probabilità di efficacia cresce significativamente. Ma temo che i tempi siano oramai strettissimi, pur essendo un tema già sul tavolo dei ministeri. Per quanto riguarda i ragazzi, non si tratterebbe solo di ascoltarli ma di coinvolgerli attivamente nel design della scuola che verrà, già a partire da quest’anno.

Alternanza scuola-cittadinanza

Con la mia organizzazione Officine Culturali e con altri bellissimi partner (Comitato Popolare Antico Corso e Centro Speleologico Etneo) ho lavorato a diversi progetti di Alternanza Scuola Lavoro, ma uno in particolare è rimasto il più intrigante, forte e generativo. Per tre anni, dal 2016 al 2018, abbiamo co-progettato un’ipotesi di riattivazione culturale di un vecchio rifugio antiaereo interno alla scuola con studenti e studentesse del Boggio Lera, che rischiarono addirittura di vedersi finanziare quel progetto da Culturability. 40 ragazzi, tante diffidenze, un mare di idee, diversi rapporti di fiducia costruiti e oggi, a distanza di tre anni dalla fine di quel percorso, alcune amicizie affettuose e collaborazioni inossidabili con giovani adulti e adulte che nel frattempo hanno intrapreso strade diverse. Qualcuno li chiama impatti, e io sono d’accordo.

Ho appena confessato la mia complicità con le politiche scolastiche in merito all’Alternanza, ma anche con tutte quelle attività non curriculari che vengono proposte (o imposte) ai ragazzi: a mia discolpa sostengo che sono stati tutti percorsi improntati al massimo confronto aperto con i partecipanti, con le loro sfiducie, rabbie, noie, e soprattutto con le loro proposte alternative e spesso geniali e dirompenti. Un lavoro tanto aperto da essere invitato nel 2018 alla Camera dei Deputati per raccontarsi alla sua Commissione Cultura anche per voce di Salvo, uno degli studenti, diligentemente incravattato per l’occasione ma non per questo più docile riguardo alla denuncia degli aspetti critici della Alternanza Scuola Lavoro.

Mi chiedo se la voce di Salvo, rinvigorita da due cheeseburger ingurgitati prima di entrare alla Camera dei Deputati e potente nel rivendicare una nuova stagione di Alternanza Scuola-Cittadinanza, non abbia contribuito ad esempio a portare l’Alternanza da 200 ore in tre anni a 90. Chissà.

Scuole e terzo settore, un rapporto fecondo ma complesso

Per conto mio in quella occasione ho ricordato che ASL e PON hanno messo spesso a nudo alcune difficoltà che le scuole hanno a prescindere, come il sovraccarico che docenti e studenti si trovano a dover affrontare in una pletora di attività integrative a quelle curriculari. Inoltre, proprio queste attività dimostrano un fabbisogno progettuale che spesso le scuole non riescono a soddisfare, richiedendo l’aiuto di soggetti esterni – spesso associazioni o progettisti – coinvolti a titolo informale e sulla scorta delle relazioni territoriali costruite nel tempo. Si delinea quindi un sistema integrato tra scuole e organizzazioni del territorio che diventa di fatto un nuovo sistema formativo, ma che non è codificato e che pertanto sfugge alla sistematizzazione. In questo sistema informale le organizzazioni culturali non profit costituiscono spesso un partner strategico, capace di portare competenze progettuali, professionalizzanti e esperienze praticabili dai ragazzi.

Ma quanto questo partenariato informale si traduce in una efficace leva al servizio della vita dei ragazzi? Quanto queste azioni sono messe in condizione di operare con stabilità, copertura finanziaria e continuità pluriennale? L’intento di molte di queste organizzazioni è quello di agire sulle barriere culturali, aggredendole e ridimensionandole, e al contempo aumentando la portata generativa del patrimonio e delle attività culturali: conoscenza della complessità storica e sociale, consapevolezza del presente, consolidamento delle comunità, costruzione cosciente del futuro. A dire il vero queste organizzazioni spesso sono sole, agiscono costruendo welfare ma del tutto delegate e tra l’altro informalmente, senza risorse e facendosi completamente carico degli oneri che ne derivano, in termini di competenze, tempo, personale, materiali, gestione. Ne viene fuori un welfare nuovo, misto, ibrido, ma spesso delegato (si legga: scaricato) a specifiche relazioni, quasi deregolamentato, poco sostenibile, a rischio di estinzione.

Oggi i ragazzi della quinta AL hanno un’idea sull’Alternanza di domani

Per un invito della professoressa Stanganelli al progetto “L’arte per l’arte” del Liceo Statale Boggio Lera di Catania, ho ritrovato dopo due anni la quinta AL ad un incontro sui beni culturali che concludeva l’alternanza scuola lavoro triennale dei ragazzi e delle ragazze.

Ho chiesto loro che cosa ne pensassero dell’Alternanza. Sono stati sinceri, manifestando la loro delusione. Bene, allora ho detto loro: facciamo un gioco, io sono il ministro dell’istruzione e voi mi dite come riformare l’Alternanza, per consegnare una scuola migliore a chi verrà dopo di voi. Giulia, Alessio, Noemi e altre mi hanno detto chiaramente le loro idee, eccole qui:

  1. Il percorso integrativo non deve essere obbligatorio: devo poter scegliere se impiegare il mio tempo extra nello studio, nella mia vita privata o eventualmente in attività aggiuntive proposte dalla scuola.

  2. Le attività devono essere coerenti con gli indirizzi di studio, così da integrarli: ad esempio un indirizzo linguistico come il loro, piuttosto che catalogare opere in un museo potrebbe affiancare gli operatori che lavorano con stranieri per potenziare le competenze linguistiche, o lavorare con esperti di traduzione.

  3. Capire come funziona il mondo del lavoro, ma davvero: parlare genericamente di sostenibilità, business plan, piano di comunicazione, se non sai che cos’è un contratto di lavoro, come ci si comporta con un datore, cos’è una busta paga o un contratto nazionale, significa arrivare all’eventuale appuntamento del tutto impreparati.

Beh, io li ho ascoltati e mi sembra che ci siano delle ottime indicazioni per riformare ulteriormente l’istituto dell’Alternanza o PCTO che sia. Quella di Giulia, Alessio, Noemi e delle altre e altri è evidentemente una richiesta di trasformazione progressiva di un istituto formalmente volto a rafforzare competenze (ma tradotto in una mera estensione di didattica frontale affidata spesso a quell’esercito di riserva di esperti esterni) in percorsi di alternanza scuola-cittadinanza (consapevole e attrezzata) di cui i ragazzi invece sentono il bisogno. La loro è un’idea sulla scuola e sulla sua capacità di rispondere ai bisogni, che dimostra una straordinaria lucidità di guardare il proprio presente con pensiero laterale e critico, ma anche dirompente e creativo.

L’ho detto in apertura e lo ripeto qui: sarebbe bello dedicare una parte più ampia di questi percorsi di PCTO e PON alla co-progettazione con ragazze e ragazzi, aiutandoli a mettere ordine a quelle idee dirompenti e chiedendo loro di ri-progettare insieme alcune soluzioni. Non è questa innovazione sociale? E quindi, non potrebbe giovare anche al design di cose così complesse come un Piano Scuola (estate o autunno che sia)?

Al Ministro la parola.


*Francesco Mannino, associazione Officine Culturali Impresa Sociale ETS


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