Welfare & Lavoro

Davvero ci servono i Carabinieri per “salvare” gli anziani in RSA?

Ministero della Salute, Commissione Paglia e Arma dei Carabinieri hanno siglato un accordo triennale per il censimento e la mappatura di tutte le residenze per anziani. Un dato che basterebbe chiedere alle Regioni. E una scelta che si mette nella prospettiva di cercare un colpevole. Cosa servirebbe, invece? Un nuovo atto di programmazione (l'ultimo è del 92/94, nonostante il numero di anziani da allora sia enormemente cresciuto) e una scala di valutazione omogenea dei bisogni, per poter parlare davvero di appropriatezza della risposta

di Sara De Carli

Per mappare e censire le RSA d’Italia, Speranza chiama i Carabinieri. Il Ministero della Salute ha sottoscritto ieri un Protocollo d’intesa, della durata di tre anni, con il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri per la ricognizione delle residenze socio-assistenziali presenti sul territorio nazionale. Il protocollo – si legge in una nota – è frutto del lavoro congiunto del Ministero e della “Commissione per l’assistenza sanitaria e sociosanitaria della popolazione anziana”, nota come Commissione Paglia. Il Protocollo infatti è stato sottoscritto dal direttore generale della programmazione del Ministero della Salute, Andrea Urbani, dal Comandante Generale dell’Arma, il Generale Teo Luzi e dal Presidente della Commissione, monsignor Vincenzo Paglia.

L’accordo di collaborazione prevede «la mappatura, a livello comunale, delle residenze socio-assistenziali variamente denominate (case di riposo, case alloggio, case famiglia) presenti sull’intero territorio nazionale; la realizzazione di una anagrafe delle residenze socio-assistenziali, recante il numero delle strutture operative, la rispettiva capacità recettiva, le modalità organizzative ed ogni altro aspetto d’interesse». L’Arma – prosegue il protocollo – si impegna a «effettuare il censimento delle strutture» e a «svolgere le successive verifiche in relazione a situazioni meritevoli di approfondimento».

«Sono tutte strutture che sono già all’interno della programmazione territoriale. Devono dimostrare di avere dei requisiti strutturali, per avere l’autorizzazione al funzionamento, previsti dal DPR 14 gennaio del 1997. E requisiti minimi per il funzionamento indicati nell'atto di programmazione 1992/94: l'ultimo che l'Italia ha, a dispetto dell'andamento demografico che abbiamo visto da allora. Per le residenze per anziani non autosufficienti ad esempio la programmazione fa capo alla Regione e alle aziende sanitarie locali. Sono stranito che oggi invece di andare a leggere il bisogno e chiedere con forza la reale costruzione di una filiera di servizi, si mandino i Carabinieri a vedere che cosa c’è. Vuol dire che il Ministero non sa che questi dati basta chiederli alle regioni. Oppure che si vuole arrivare ad ogni costo a dire che c’è stato un colpevole», commenta sgomento Luca Degani, presidente di Uneba Lombardia.

Cosa bisognerebbe fare, invece? «L’ultimo atto di programmazione che definiva i possibili standard gestionali per queste residenze risale al 1992/94 ed erano solo delle Linee Guida. I requisiti indicati nel 1997 a livello nazionale infatti sono solo requisiti strutturali. Quindi abbiamo un requisito strutturale nazionale e 20 standard diversi per i requisiti gestionali, uno per ogni regione. Con il Covid-19 abbiamo visto con tutta evidenza le problematicità che questo ha comportato: dal Ministero della Salute, dopo tutti gli eventi terribili che tutti conosciamo, ci si aspettava un intervento di questo tipo», spiega Degani.

Un altro nodo è quello relativo alla scala di valutazione del bisogno dell’anziano. «Non c’è una scala omogenea che definisca il livello di bisogno, in Lombardia si usa la scala SOSIA, in altre regioni ci sono altre scale o nulla. Sicuramente sarebbe opprtuno trovare una scala omogenea che analizzi il bisogno di salute e sociale dell’anziano, insieme alle risorse su cui può contare: serve per definire la risposta più appropriata al bisogno. Abbiamo infatti sempre parlato di modello a filieria, che si fonda sull’appropriatezza del servizio rispetto al bisogno: ma prima allora ci vuole una scala di valutazione del bisogno. Questo è ciò che ci si aspettava: una scala omogenea e una programmazione con un modello a filiera vero. Mandare i Carabinieri nelle RSA invece vuol dire mettersi in un approccio a prioristico che pensa di indagare per andare a trovare un colpevole. Ma forse allora, se parliamo di colpevoli, il ministero deve interrogare prima se stesso per aver scelto di dare priorità agli ospedali, senza comprendere il dramma che stavano vivendo le RSA», prosegue Degani.

«Sono sconcertata da questa notizia», commenta anche la professoressa Chiara Saraceno. Innanzitutto «mi stupisco che oggi si ponga un problema di censimento: dov’erano le Regini finora? Se è così sono da commissariare le Regioni, non le RSA. La questione, poi, è evidentemente multidisciplinare poiché gli anziani fragilissimi che stanno nelle RSA non hanno solo bisogni sanitari o di igiene, non basta controllare che non ci sia contenzione, che siano nutriti e cambiati spesso, ma ci sarà il problema di capire il loro progetto di riabilitazione in senso ampio, di stimolazione delle capacità residue, di socializzazione… non è solo questione di verificare se le norme sono ottemperate, serve un’osservazione partecipata. Se mandiamo l’esercito vuol dire che non c’è fiducia nella capacità di controllo da parte delle regioni. È l’ennesimo esempio di come ormai si pensi alle RSA come “il male assoluto” e alla domiciliarità come unica soluzione. Ma la casa, la famiglia e anche le case protette, per quanto siano tutti temi su cui è necessario investire, non sono risposte sufficienti a un certo punto, almeno non sempre e non per tutti: ma questo non viene visto».


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