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Terzo settore, davvero la Riforma prevede stipendi troppo bassi?

Il Codice del Terzo settore prevede che negli ETS la differenza retributiva tra lavoratori dipendenti non può essere superiore al rapporto uno a otto e che la retribuzione non può essere superiori del quaranta per cento rispetto a quella prevista dai contratti collettivi. C’è chi stipula accordi privati per superare tali limiti, ma urge confronto sui valori di senso della riforma del Terzo Settore. Il punto di vista diverso di Ai.Bi.

di Antonio Crinò

Si avvicina (si fa per dire, visto il rinvio del termine per l’adeguamento degli statuti per un altro anno) la piena entrata in vigore della riforma del Terzo settore e diversi aspetti già vengono messi in discussione. Uno di quelli più contestati riguarda il tetto alle retribuzioni degli amministratori e degli oltre 850mila lavoratori del non profit. La questione nasce dall'articolo 8 del Dlgs 117/2017 (il Codice del Terzo settore), che riguarda, appunto, il trattamento salariale. Il comma 2 prevede il divieto di corresponsione ai lavoratori subordinati e autonomi di "retribuzioni o compensi superiori del quaranta per cento rispetto a quelli previsti, per le medesime qualifiche, dai contratti collettivi". Fanno eccezione solo i settori sanità, ricerca scientifica e università.

È inoltre vietata anche "la distribuzione, anche indiretta, di utili e avanzi di gestione, fondi e riserve», ovvero «la corresponsione ad amministratori, sindaci e a chiunque rivesta cariche sociali di compensi individuali non proporzionati all’attività svolta, alle responsabilità assunte e alle specifiche competenze o comunque superiori a quelli previsti in enti che operano nei medesimi o analoghi settori e condizioni». L’art. 16, infine, aggiunge che “in ciascun ente del Terzo settore, la differenza retributiva tra lavoratori dipendenti non può essere superiore al rapporto uno a otto, da calcolarsi sulla base della retribuzione annua lorda”.

Alcune grandi organizzazioni del settore hanno criticato questo aspetto fin dalla stesura del decreto, spiegando che, di fatto, questa norma penalizza il settore non profit creando una disparita tra lavoratori in un mercato del lavoro che, invece, è unico. Chi lavora come dipendente e non come volontario ha diritto di avere il trattamento retributivo per quello che sa fare, non rapportato al tipo di ente che lo assume. "Non ci si può aspettare che il lavoro nel Terzo settore coincida solo con una scelta etica" dichiara il vicepresidente di Emergency Bertani al Sole 24 Ore.

A prima vista, sembra la semplice constatazione di un fatto ovvio, ma è davvero così?

Un radicale cambio di prospettiva è possibile

Innanzi tutto, alla base di norme di questo tipo, c’è una consolidata motivazione economica. Le legislazioni sul terzo settore si basano sul fatto che agli enti non profit è riconosciuta un’esenzione totale dalle imposte o quasi per la funzione sociale che svolgono e a patto che le risorse così agevolate vengano il più possibile impiegate nelle attività istituzionali. Questo può tradursi anche in una limitazione ai compensi o ai vantaggi, che è possibile corrispondere agli stakeholder in generale.

Soprattutto, però, gli ETS hanno la loro ragione di essere proprio in una scelta etica o, almeno, in una visione delle cose che è diversa da quella del mercato. Gli ETS possono infatti esistere perché ci sono i donatori, ovvero persone che decidono di usare parte del loro reddito non per comperare beni e servizi che aumentino esclusivamente la loro soddisfazione materiale, cosa che per le regole del mercato ognuno di noi dovrebbe continuamente fare, ma per donare beni e servizi a sconosciuti in difficoltà.

Allo stesso modo, gli ETS possono funzionare perché, al loro interno, ci sono persone che decidono di dedicare il loro tempo, i volontari, o la loro carriera lavorativa, i dipendenti, ad una causa, scambiando appunto parte della loro possibile remunerazione monetaria con la motivazione, molto più ricca di senso e relazioni rispetto ad altri impieghi, derivante dall’attività svolta.

Insieme, testimoniano che è possibile una via diversa di sviluppo, testimonianza di cui forse oggi c’è tanto più bisogno quanto più il modello economico e sociale costruito negli ultimi decenni mostra scricchiolii sempre più sinistri e rivela i danni già prodotti su ciò che ci circonda e tra di noi.

Se però la logica deve essere quella del mercato e non quella della missione anche all’interno degli ETS, che senso resta a questi ultimi? Se togliamo agli ETS la testimonianza delle persone, che agli ETS danno vita, e la sostituiamo con puro marketing, quale credibilità possono mantenere?

Se il solo prezzo monetario delle risorse da reperire, senza più alcuno spazio per la gratuità, diventa anche negli ETS il criterio prevalente, che cosa resta della speranza che gli ETS dovrebbero portare e di cui oggi c’è tanto bisogno? Possibile che si possano mantenere alti valori ideali solo facendo un minimo di beneficenza in parrocchia (per riprendere nuovamente il punto di vista di Emergency come riportato dal Sole 24 Ore), ma, crescendo, si debba per forza diventare tante multinazionali della solidarietà?

Forse sarebbe tempo di aprire qualche discussione in più sui valori e sugli aspetti di senso della riforma del terzo settore, come questa potrebbe essere, piuttosto che sui tecnicismi esasperati di questo o quel comma. E magari anche evitare di aggirare queste basilari questioni di senso proprio con l’ennesimo tecnicismo, per esempio l’accordo integrativo fatto da Emergency con i sindacati che, attraverso indennità varie, potrebbe permettere di non dovere considerare i limiti alle retribuzioni poste dal Codice del terzo settore. Chissà che non arriveremo a concludere che i tetti oggi presenti nel Codice del terzo settore (retribuzioni non superiori del 40% a quelle analoghe stabilite dai CCNL e rapporto massimo di 1 a 8 tra la retribuzione più bassa e quella più alta nell’organizzazione) sono addirittura troppo alti.

*Antonio Crinò è Direttore finanziario di Ai.Bi.

Photo by Sahand Hoseini on Unsplash


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