Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Cooperazione & Relazioni internazionali

Intersos: «Le isole greche sono l’emblema del fallimento delle politiche migratorie Ue»

A 70 anni dalla firma della convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato, ascoltando le storie di chi da anni è intrappolato sull’isola di Lesbo, di chi ha subito violenze ingiustificabili alle frontiere, o di chi viene ingiustamente separato dai propri familiari, si ha la conferma che non si sia fatto altro che procedere all’indietro rispetto a quell’impegno. E le isole greche ne sono l’ emblema.

di Redazione

A 70 anni dalla firma della convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato, ascoltando le storie di chi da anni è intrappolato sull’isola di Lesbo, di chi ha subito violenze ingiustificabili alle frontiere, o di chi viene ingiustamente separato dai propri familiari, si ha la conferma che non si sia fatto altro che procedere all’indietro rispetto a quell’impegno. E le isole greche ne sono l’ emblema.

A partire da marzo 2016, con la firma dell’accordo tra UE e Turchia e l’inizio della politica degli hotspot, l’Europa ha continuato a bloccare persone vulnerabili ai confini, in campi di detenzione sempre più sovraffollati e inaccettabili in termini di condizioni di vita.

Quando, a settembre 2020, un incendio ha completamente distrutto il campo di Moria, sull’isola di Lesbo, sono state molte le dichiarazioni da parte di membri delle Istituzioni europee che promettevano un cambio di passo e un definitivo abbandono di campi inumani come quello appena bruciato. Così non è stato: è stato costruito invece un secondo campo, il campo temporaneo di Mavrovouni, dove le condizioni di vita dei richiedenti asilo sono sempre le stesse – sovraffollamento, mancanza di servizi igienici, rischio di violenze – e per settembre è prevista la costruzione di un nuovo campo, che l’Europa ha finanziato con 76milioni di euro, e che ospiterà tutti i richiedenti asilo presenti sull’isola, comprese le persone più vulnerabili precedentemente accolte in spazi protetti. Questo nuovo campo sorgerà a ridosso di una discarica, in una zona isolata, priva di servizi esterni al campo e di collegamenti con i centri abitati.

I campi delle Isole Egee sono diventati in sostanza centri di detenzione, dove migliaia di richiedenti asilo sono intrappolati, in attesa – anche per anni – di ricevere un responso, con effetti devastanti sulla loro salute mentale. Sono oltre 5.500 le persone attualmente bloccate sull’isola di Lesbo.

Il nuovo Patto EU sull’asilo e l’immigrazione presentato a settembre 2020, inoltre, non fa intravedere uno spiraglio per il futuro. Alla base delle procedure previste nella proposta, infatti, è chiaro che una reale analisi delle vulnerabilità di chi chiede di entrare in Europa venga ridotta all’osso a favore, invece, di politiche di contenimento e deterrenza attraverso una più rapida elaborazione delle richieste d’asilo e un'intensificazione dei rimpatri.

Già oggi, infatti – come raccontano molte delle donne che Intersos assiste a Lesbo – è frequente che vulnerabilità esistenti non vengano riscontrate, causando anche il rigetto della domanda di asilo. I colloqui di asilo rappresentano la prima occasione per rivelare episodi di violenza ed è fondamentale che siano svolti con la massima attenzione. “Quando donne sopravvissute a violenza ricevono il rigetto della loro domanda di asilo, le loro condizioni possono peggiorare bruscamente”, spiega Clotilde Scolamiero, project manager di Intersos a Lesbo. “Il rifiuto rafforza i loro sentimenti di sfiducia e disperazione, provocando anche pensieri suicidi. Molte di queste donne sono sopravvissute a violenze e torture disumane e sono rimaste intrappolate a Lesbo anche per anni, senza protezione, accesso a servizi adeguati, affette da malattie croniche o flashback ricorrenti della loro esperienza traumatica. Nei campi inoltre continuano ad essere esposte tutti i giorni a violenze”.

Tutto questo viene aggravato dalle leggi nazionali: dal 2020 in Grecia chi ottiene lo status di rifugiato perde il diritto a qualsiasi sussidioeconomico ricevuto fino a quel momento ed è costretto a lasciare la propria sistemazione in accoglienza entro massimo 30 giorni. Chi vede accolta la propria domanda d’asilo, dunque, si ritrova con ancor meno sostegno per avviare un percorso di integrazione e rischia di finire in strada in condizioni di povertà totale.

In ultimo, il 7 giugno scorso, la Grecia ha decretato la Turchia come paese terzo sicuro anche per i richiedenti asilo provenienti da Afghanistan, Pakistan, Bangladesh e Somalia. A Lesbo, il 65% dei richiedenti asilo è di nazionalità afgana e l’8% somala. Questo vuol dire che più di 4.000 persone rischiano di essere deportate in Turchia, un paese dove i loro diritti non verranno rispettati. A coloro che provengono da paesi “non-europei” infatti, la Turchia non riconosce lo status di rifugiato nel rispetto della convenzione di Ginevra, ma uno status “condizionale” che non riconosce alcuni diritti come quello al ricongiungimento familiare.

Credit Foto: Martina Martelloni


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA