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La meritocrazia? Meglio criticarla

In queste ore sta facendo una gran parlare il caso di Imen Jane, fondatrice di Will, e Francesca Mapelli di Vice che, a Palermo per un evento ambientale, hanno pubblicato delle stories in cui criticavano alcune maestranze, adducendo come motivazione una questione di merito e impegno. Un merito però che sembra diventare una giustificazione alle diseguaglianze. Una questione, quella della meritocrazia, su cui ha scritto sul magazine di giugno Luca de Biase

di Lorenzo Maria Alvaro

Imen Jane, “esperta di economia” e fondatrice di Will Media, e Francesca Mapelli influencer e direttrice del Fashion di VICE Media per l’Europa meridionale sono finite nell'occhio del ciclone social per alcune stories. Le due, a Palermo per un vento ambientale, si sono cimentate in una serie di stories su Instagram in cui criticavano e riprendevano alcune maestranze locali sostenendo, in soldoni, che se si fossero impegnate di più avrebbero migliorato considerevolmente la propria condizione.

Il succo del discorso delle due “influencer” era quindi che la condizione era dovuta ad un supposto demerito, legato allo scarso impegno. Il tema della meritocrazia però è un discorso spinoso. Al riguardo, sul numero del magazine di giugno, si era espresso Luca de Biase. Ecco l'articolo integrale.


In un Paese come l’Italia che lamenta — a ragione — che l’ascesa sociale è più motivata dalle relazioni di parentela e amicizia piuttosto che dal merito delle persone, sentir criticare la meritocrazia è piuttosto paradossale. Eppure la critica della meritocrazia di Michael Sandel va ascoltata con attenzione e apertura mentale. Perché se ne esce migliori. Ho avuto la fortuna di essere chiamato dall’editore Feltrinelli a conversare con il filosofo americano a proposito della traduzione del suo lavoro su “La tirannia del merito”.

La prima domanda era proprio quella: come pensa di portare la critica della meritocrazia in un Paese che la sente come un’innovazione giusta e sacrosanta? Il suo punto di vista è molto interessante. Ovviamente non se la prende con chi si impegna e lavora sodo. Non ha alcuna simpatia per i sistemi di potere basati sulle carriere relazionali costruite dagli “amici degli amici”. Ma nei fatti osserva che la meritocrazia non è una realtà, ma una finzione che serve a giustificare la disuguaglianza.

Chi ha fatto una grande università americana — tanto per fare un esempio — andrà con ogni probabilità molto in alto nella gerarchia sociale, ma nella maggior parte dei casi è riuscito a frequentare quella scuola grazie all’appoggio e alle finanze della sua abbiente famiglia. L’ascensore sociale è una finzione più che una realtà. Lo stesso Economist ne scriveva qualche tempo fa, mettendo a nudo una realtà sottovalutata.

E l’Ocse con il suo studio intitolato A Broken Social Elevator? How to Promote Social Mobility dimostrava come la variabile che spiega meglio di tutte perché le persone si trovano in alto nella gerarchia sociale ed economica è il reddito della famiglia. In questo senso, per Sandel la meritocrazia come sistema è un’idea che non si è realizzata. E che invece serve a giustificare la disuguaglianza sociale ed economica crescente.

Chi sta in alto si sente a posto con la coscienza credendo – talvolta sinceramente e con buone ragioni – di essersi meritato i suoi risultati. E con questo sentimento non si sente in obbligo di rispettare chi sta in basso, in base al pensiero contrario: se chi è in alto se lo è meritato con impegno e duro lavoro, chi sta in basso deve biasimare soltanto se stesso per non aver meritato altrettanto. Questo pensiero non fa che aumentare la polarizzazione e distruggere la solidarietà.

In questo senso la meritocrazia assomiglia a un altro concetto privo di realtà storica, molto attraente in teoria, di fatto utilizzato per giustificare il potere: la concorrenza perfetta secondo gli economisti neoclassici genera la migliore allocazione delle risorse possibile, ma le condizioni che la rendono possibile sono talmente assurde (tutti gli operatori hanno dimensioni relativamente piccole, tutti gli operatori sono razionali, tutti gli operatori sono totalmente informati su tutto) che storicamente non si è mai verificata. Il che non ha impedito agli economisti neoliberali di usare quella idea del mercato per giustificare la demonizzazione del ruolo dello stato in economia, le liberalizzazioni e le privatizzazioni che hanno favorito enormemente il potere del capitalismo negli ultimi quarant’anni: mercato perfetto e meritocrazia — si assomigliano. Basterebbe che i ricchi si dichiarassero “fortunati” per riqualificare la loro moralità. La consapevolezza della fortuna che ha dato loro posizioni di partenza migliori li renderebbe più umili e aperti a considerare il bene comune.

Luca de Biase
@lucadebiase


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