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Cooperazione & Relazioni internazionali

Ventimiglia e l’Europa che respinge e non sa accogliere

La città al confine con la Francia è un luogo di frontiera. Ogni anno da qui transitano 30mila persone. «Abbiamo visto la militarizzazione dei valichi da parte del governo francese per fermare e scoraggiare i flussi migratori», racconta Jacopo Colomba project manager di WeWorld a Ventimiglia. «Dopo la chiusura del campo di Roja la situazione è ancora più complessa. Imprescindibile adesso è un dispositivo di accoglienza per i migranti in transito: un campo che abbia anche percorsi specifici per seguire le famiglie, i minori non accompagnati e le donne sole»

di Anna Spena

Ventimiglia è un luogo di frontiera. 25mila abitanti e 30mila migranti che ogni anno qui arrivano, si fermano, provano ad oltrepassare il confine per arrivare in Francia e qui vengono rispediti indietro. Eppure non sono pacchi, ma persone. «Vengo dalla Nigeria, dalla zona del Biafra», ha raccontato Ifeoma, 28 anni che viaggia con una bambina di due. «Come tanti, sono arrivata a Lampedusa con la barca. Vivo in Italia da due anni e mezzo, ho lavorato a Campomarino, un paesino sulla costa del Molise. È lì che è nata mia figlia Precious. Sono qui a Ventimiglia da alcuni giorni, voglio andare in Francia per raggiungere il papà di Precious che vive a Marsiglia. Ho già tentato tre volte di attraversare la frontiera, sempre in treno, ma mi hanno sempre respinto. Una volta mi ero messa una parrucca bionda, per essere meno riconoscibile». O ancora Mohammed, (la sua testimonianza, come quella di Ifeoma, la trovate nel rapporto pubblicato da We World Il viaggio dei migranti tra Pandemia e nuove accoglienze), «sono partito dal Pakistan nel 2016, ho lasciato mia moglie e i miei due figli per venire a guadagnare in Europa. Ho preso un volo fino a Istanbul, poi ho camminato per tre mesi, sempre a piedi, per arrivare in Italia: ho attraversato la Grecia, la Bulgaria, la Serbia, la Croazia e la Slovenia. Nel tragitto ho visto cose orribili: alcuni compagni di viaggio sono stati arrestati e sono stati portati in carcere, altri non ce l’hanno fatta perché si sono feriti nel cammino e sono stati abbandonati. Sono stato respinto 19 volte, ci provo quasi ogni notte. Una volta mi hanno bloccato alla fine del sentiero chiamato il “passo della morte”, un’altra volta ho provato ad attraversare camminando per sei ore in un percorso interno di montagna: sono dovuto tornare indietro, avevo male ai piedi e non ce la facevo più. In un paio di casi invece pensavo di avercela fatta: ero salito su un treno ed ero arrivato fino a Nizza, ma poi lì sono stato fermato e rimandato in Italia».

Il Campo Roja, il presidio della Croce Rossa italiana dove venivano accolti i migranti di passaggio, è chiuso oramai da un anno. «Ventimiglia», racconta Jacopo Colomba, project manager di WeWorld, «è un luogo di confine. Non solo fisico, ma anche simbolico. Io ho 32 anni e da che ne ho memoria già a partire dagli anni Novanta arrivavo i flussi dei primi profughi in fuga dalla Turchia o dall’Iraq.

Dopo il 2011, dopo la primavera araba, i flussi si sono intensificati. Vivere in un luogo di confine significa avere a che fare con questi fenomeni, trovarsi il mondo a casa. Ventimiglia è diventata la “Lampedusa del nord” dal 2015. Quando la Francia ha letteralmente chiuso ogni punto di passaggio abbiamo visto la militarizzazione dei valichi per fermare e scoraggiare i flussi migratori. All’inizio i cittadini di Ventimiglia si sono dimostrati solidali con i migranti, siamo una città di confine, abituata ai flussi come quello che avvenne nel 2011 con la Primavera araba.

Solo che, nel 2015, non sapevamo che questa volta si trattava di un flusso infinitamente più eterogeneo, e soprattutto che sarebbe rimasto costante per anni. Nel tempo il clima di solidarietà si è degradato, e abbiamo cominciato ad assistere a episodi di ostilità da parte della popolazione».

Lo scorso anno tra Ventimiglia e Mentone sono state respinte 22mila persone. «I flussi interni hanno sicuramente un minor impatto visivo: rimangono sotto traccia e dunque colpiscono meno l’opinione pubblica, eppure questo non significa che, in questi spostamenti, i migranti non vivano esperienze altrettanto dure e difficili. Arrivano in comune», continua Colomba, «o dopo la Rotta del Mediterraneo Centrale o dopo la Rotta Balcanica. In maggioranza sono single man, l’età media è di 25 anni. Ma abbiamo incontrato anche famiglie e tanti minori non accompagnati».

Non esiste una struttura in cui poter accogliere queste persone: «Con la chiusura del campo, centinaia di persone sono finite in strada: tra loro anche donne, famiglie, bambini che di solito si fermavano lungo il fiume Roja. A novembre 2020 insieme a Caritas e Diaconia Valdese, abbiamo aperto una struttura di accoglienza per famiglie e donne sole, in transito o in attesa di entrare nel circuito di accoglienza vero e proprio. Dal 3 novembre 2020 a maggio 2021 abbiamo accolto 222 nuclei familiari, di cui 127 uomini, 258 donne e 208 minori. Quattro famiglie, dopo essere state respinte più volte, si sono infine convinte a domandare asilo in Italia e sono state prese in carico dalla Prefettura».

Siamo comunque in un limbo: «L’unica soluzione deve essere ricercata a livello europeo, ma gli interessi degli Stati prevalgono ancora sui diritti dei migranti. Imprescindibile adesso è un dispositivo di accoglienza per i migranti in transito: un campo, che abbia anche percorsi specifici per seguire le famiglie, i minori non accompagnati e le donne sole. Spesso lo slogan “più sicurezza” fa rima con “più umanità”: il benessere dei cittadini di Ventimiglia non può esistere se dall’altra parte non si assicurano neanche gli standard minimi dei diritti delle persone migranti».

Credit Foto Michele Lapini


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