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L’inclusione degli stranieri migliora organizzazione e competitività in azienda

Uno studio di Fondazione Ismu, realizzato insieme a Fami, su oltre 60 imprese che hanno integrato i lavoratori stranieri parla chiaro: le buone pratiche di inclusione degli stranieri in azienda si riflettono positivamente sugli altri dipendenti e spingono l’internazionalizzazione

di Luca Cereda

Le aziende che riescono ad avere un gruppo di dipendenti stranieri e ad essere efficaci nell’inclusione degli stranieri raccolgono ottimi risultati, perché: hanno vantaggi nei percorsi di internazionalizzazione e nelle strategie commerciali, migliorano i proprio introiti e l’efficienza del gruppo di lavoro. In sintesi: diventano più competitive. È questa una delle conclusioni a cui è arrivato lo studio «Una macchina in moto col freno tirato.

La valorizzazione dei migranti nelle organizzazioni di lavoro», condotto in Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte, Puglia e Veneto, nell’ambito del progetto «DimiCome» – ovvero, “Diversity management e integrazione. Competenze dei migranti nel mercato del lavoro” – , realizzato da Fondazione Ismu e co-finanziato dal Fondo asilo, migrazione e integrazione (Fami).

«Dim(m)iCome» integrare

I risultati raggiunti finora dal progetto sono basati sull’analisi dei dati raccolti in oltre 60 aziende che hanno puntato sulla diversità come elemento di forza. «Questa iniziativa ha consentito di raccogliere e sintetizzare i percorsi di gestione della “diversity” che sono stati fatti in imprese di settori economici e dimensioni differenti», spiega Laura Zanfrini, responsabile del settore Economia e Lavoro della Fondazione Ismu.

Le aziende coinvolte infatti hanno dimensioni variabili: da grandi realtà appartenenti a gruppi multinazionali, a piccole e medie aziende. Se la gestione dell’inclusione è più nel Dna delle aziende multinazionali, non sempre è un percorso lineare nelle piccole imprese, più radicate, anche in termini di presenza tra le fila degli assunti, sul territorio.

«Mentre le multinazionali addirittura richiedono la “diversity” per certi tipi di impieghi e per certi profili – continua Zanfrini – per le nostre aziende questo approccio opera su profili meno specializzati, acquistando per questo ancora più importanza». Si delinea quindi una sorta di “diversity all’italiana” in cui le pratiche di inclusione socio-lavorativa di chi è straniero hanno spesso un forte ancoraggio al territorio di appartenenza dell’azienda, o meglio hanno ricadute su questo.

Le ricadute positive dell’inclusione della diversità

Dai casi analizzati dallo studio di Ismu emerge che le buone pratiche messe in campo nell’integrazione dei lavoratori stranieri, si riflettono positivamente anche su tutti gli altri lavoratori: «Lavorare attivamente sull’inclusione di persone straniere in azienda, spesso anche vulnerabili, come sono spesso i migranti, con percorsi di vita e di lavoro “interrotti” – spiega ancora Laura Zanfrini di Ismu – può aiutare le aziende a mettere in campo strategie che fanno leva sulla generalità degli altri lavoratori: pensiamo ad esempio a come facilitare i rientri da periodi di maternità o di malattia».

Gli stranieri residenti in Italia sono quasi 6 milioni, di cui cinque di regolari, ai quali si aggiungono 370mila regolari peri permesso di soggiorno, ma non iscritti all’anagrafe, e 520mila irregolari. A queste cifre va poi aggiunto il numero di stranieri che, avendo acquisito la cittadinanza italiana, è scomparso dalle statistiche: un numero che si aggira, secondo le stime di Ismu, complessivamente a oltre un milione e 600mila “italiani acquisiti”. Sommando tutte queste componenti, si arriva alla cifra di circa otto milioni di persone con un background migratorio.

Le aziende hanno un ruolo nell’integrazione

«Se consideriamo l’andamento demografico del nostro Paese – spiega ancora Laura Zanfrini – appare evidente che nei prossimi anni la presenza di lavoratori che hanno un background straniero, immigrati di prima e seconda generazione, sarà sempre più significativa». Ecco allora che la gestione della diversity, del retroterra migratorio del lavoratore, non sarà più un tema per addetti ai lavori ma riguarderà la competitività del Paese e del sistema produttivo nel suo complesso.

Le aziende, secondo i curatori del progetto «DimiCome», possono avere – e in alcuni casi stanno avendo – un ruolo di primo piano nel valorizzare le competenze e nel formare i migranti, anche nel farli uscire da quelle condizioni condizioni di lavoro e retributive e per il basso livello di prestigio sociale, per cui gli immigrati generalmente non entrano in competizione con i lavoratori nazionali.

La “diversity” è un’opportunità per le aziende? Un caso concreto

Un caso emblematico in questa direzione è quello della Scame Parre Spa – che ha 300 dipendenti in Italia -, dove l’accoglienza si fonda sull’idea che un’azienda del territorio debba preoccuparsi di questo territorio.

«La Scame è un’azienda che produce componenti e sistemi per impianti elettrici in bassa tensione, a Parre, in provincia di Bergamo», spiega Sonia Piccinali, assistente alle risorse umane e referente per la formazione. Qui, in Val Seriana, vicino a Clusone, il mondo arriva attraverso due volti, quelli di due rifugiati, uno proveniente dalla Guinea-Bissau l’altro dalla Nigeria. Hanno competenze pregresse diverse – che per la legge non possono essere formalmente riconosciute, e hanno storie differenti, ma un elemento comune: la capacità di inserirsi e di essere coinvolti .

«Perché quando i luoghi comuni diventano facce e persone tutto è diverso», dice Sonia Piccinali. Lo straniero smette di essere tale e diventa un compagno di lavoro. «Ora vogliamo occuparci anche delle donne immigrate, dare loro un’opportunità. E poi delle seconde generazioni, perché si sentano parte del tessuto sociale anche grazie al loro essere membri attivi del testo economico».

Storie di immigrazione e di inclusione attraverso il lavoro

Il progetto «DimiCome» ha monitorato anche altre esperienze, diverse da quelle prettamente aziendali. Un caso è quello della catena di hotel, NH Hotel Group.

Questa realtà ha 1.260 tra dipendenti e collaboratori in Italia, di cui 161 di origine straniera. E ha deciso di focalizzarsi sull’inclusione della popolazione straniera più fragile: i profughi giunti migrando nel nostro Paese. Lo ha fatto puntando sull’inclusione lavorativa dei migranti e richiedenti asilo e sviluppando una sinergia a Milano con la onlus Farsi prossimo. Concretamente è stato offerto un tirocinio formativo in alcuni settori tra cui la cucina, il servizio in sala, e la reception. A occuparsi della selezione dei tirocinanti con lo statuto di richiedenti asilo, rifugiati o beneficiari di protezione internazionale è stata appunto Farsi prossimo. Dopo la Lombardia il piano è stato esteso anche ad altre Regioni come Toscana, Emilia Romagna, Sicilia. Il risultato? La consapevolezza della diversità ora è percepita «come una risorsa per l’azienda».

E poi c’è la Freudenberg Sealing Technologies Italia ha vinto il Welcome Working for refugee integration dell’Unhcr. L’impresa, che fa parte di un gruppo multinazionale, ha 1.050 dipendenti negli stabilimenti della provincia torinese e quelli di origine straniera sono 44.

L’azienda ha accolto cinque rifugiati attivando un percorso finalizzato da un lato al loro inserimento, dall’altro ad attivare momenti di conoscenza e di scambio per tutta la popolazione aziendale. Vanno in questa direzione l’organizzazione di attività sportive e poi la creazione di momenti di conoscenza attraverso il cibo, tanto quello italiano, quanto quello tradizione dei paesi di origine dei membri dello staff aziendale.


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