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Il Covid visto con gli occhi delle famiglie dei disabili

Antonio Pinna torna in libreria con “La cura ai tempi del Covid-19”, un viaggio nel nostro Paese tra le persone con disabilità, anche non autosufficienti, evidenziando i problemi non risolti del sistema e del lavoro privato di cura. «Spesso – dice- nella narrazione pubblica viene esaltata la famiglia, ma questo è un discorso mistificatore fatto per nascondere le responsabilità e le carenze negli interventi delle istituzioni pubbliche».

di Sabina Pignataro

Quella di Antonio Pinna, 71 anni, ex-preside di Oristano e giornalista, è una vita dedicata alla divulgazione sui temi della disabilità e non autosufficienza. Nel 2014 la sua tesi in Psicologia, a 64 anni, è diventata un viaggio tra i malati di Sla resilienti, pur nelle loro vite minate dalle sofferenze e dall'incubo di una malattia inguaribile.

Ora, con La cura ai tempi del covid-19. Prendersi cura dei più fragili Anziani disabili e caregiver familiari nella pandemia ( Maggioli Editore), Pinna allarga il suo sguardo all'intero mondo della non autosufficienza nel tempo della pandemia.

«Il mio percorso è fatto di storie, di testimonianze delle di pazienti: con malattie neurodegenerative, demenze, disturbi psichici, malattie psichiatriche, persone Down, sindromi dello spettro autistico, ciechi, sordi, sordo ciechi», racconta l’autore.

Nel libro di Pinna il cannocchiale lo manovrano le persone fragili i disabili, gli anziani non autosufficienti, i vecchi ricoverati nelle RSA che hanno avuto a che fare con il Covid-19 e/o che sono state emarginati dalle cure. Perché di queste e delle loro esigenze parla il libro.

Il volume inizia con la descrizione di ciò che successe nel nostro Paese nei primi mesi del 2020, quando gli ospedali erano saturi, il numero dei morti giornaliero in continuo aumento, i viaggi delle bare alla ricerca di una tumulazione. La seconda parte descrive quel periodo e il successivo: La terza parte del libro parla degli assistenti familiari, siano essi componenti del nucleo originario o inseriti al bisogno. «Il mio è un abbraccio fatto per conoscere e condividere il vissuto dei pazienti e delle loro famiglie».

Tre anni fa era uscito Il mio viaggio nella SLA (Cuec), insieme al documentario SLA in men che non si dica, realizzato in collaborazione con il regista Antonello Carboni. Un progetto sollecitato dal bisogno di accendere la luce sulla gravità di questa patologia, da cui era stata colpita la sorella Claudia, morta nel 2012. (Lo avevamo raccontato qui).

Che cosa racconta delle famiglie dei disabili, della loro crisi nel tempo del Covid-19?
Il mio è un viaggio nel nostro Paese durante il primo lockdown. In questo contesto l'interruzione dell'assistenza domiciliare, del servizio dei centri diurni e la reclusione forzata hanno acuito i problemi. Le privazioni delle famiglie sono diventate enormi. Pensiamo ai bambini e ai ragazzi disabili psichici e con problemi relazionali, al loro non vedersi garantite, almeno in una prima fase, le uscite fuori di casa negli spazi pubblici come i giardini comunali. Non parliamo poi agli anziani sofferenti di demenze con i loro incubi notturni rafforzati e difficilmente gestibili. Restano tracce di queste criticità nei quotidiani. Ecco io ho raccolto circa 350 articoli nelle edizioni cartacee e online e ho tessuto la narrazione del Covid-19 con gli occhi delle famiglie dei disabili.

Quali sono le tue critiche sulla situazione italiana nell'assistenza alle persone fragili?
Il mio libro non è solo un racconto. Io parto dalle singole storie per fare un quadro generale dei problemi. Spesso nella narrazione pubblica e nei discorsi dei politici viene esaltata la famiglia. E' un discorso bugiardo, mistificatore. Viene esaltata la famiglia per nascondere le responsabilità e le carenze negli interventi delle istituzioni pubbliche: Governo nazionale, Regioni, Comuni, Aziende Sanitarie Locali ed altre. Aggiungo che le famiglie si sono rimpicciolite negli ultimi decenni. Quindi il loro carico assistenziale alle persone non autosufficienti si è fatto più gravoso.

In fondo ancora oggi gran parte del sostegno alle famiglie viene dai caregiver familiari e dalle badanti.
Queste ultime in Italia registrano un numero superiore al totale dei dipendenti dell'intera sanità pubblica. Entrambe queste figure svolgono la loro azione in silenzio: sono underground, invisibili. Molti di essi non ricevono spesso neppure una minima formazione. Governo, Regioni e Comuni distribuiscono assegni di cura sempre più insufficienti rispetto al numero e ai bisogni delle famiglie. Non parliamo poi dei ritardi con cui vengono erogati i contributi. La situazione è gravissima, sempre peggiore soprattutto al Sud: Calabria, Sicilia, Puglia e Campania in testa.

Nel suo libro lei dedica un'attenzione particolare alla figura dei caregiver familiari. Come mai?
Tra i politici ed anche alcuni giornalisti non si ha una conoscenza precisa del tema. Tra questi c'è chi ha criticato l'inglesismo come una dizione inutile. E invece sbaglia perché non conosce. Chi vuol sostituire il termine inglese con "assistente familiare" (lo ha detto anche l'Accademia della Crusca) trascura il fatto che quest'ultimo, anche nel linguaggio del lavoro, equivale a badante. Ora il caregiver familiare è un portatore di cure, di attenzioni, di sostegno concreto: segue la sommistrazione dei farmaci, verifica la reazione dei pazienti nelle terapie seguite, interloquisce con infermieri e medici, si occupa degli ausili, delle pratiche per ottenerli insieme alla tenuta dei conti, delle spese da sostenere per l'assistenza. Io aggiungo che è un coach, un motivatore ed un coordinatore del lavoro delle persone impegnate nell'assistenza; familiari, amici e badanti. La quantità e la qualità del carico assistenziale, degli impegni dei caregiver è superiore a quello delle badanti. E' poi scandaloso il ritardo dell'approvazione della legge nazionale in merito, peraltro lacunosa sui temi fondamentali, che in sostanza restano in carico alle Regioni.

Tuttavia lei cita un modello positivo, quello dell'Emilia Romagna…
Il motivo più evidente è che la quantità delle somme impiegate. Sulla non autosufficienza da anni l'Emilia Romagna da sola impiega più danari del governo nazionale. La qualità si percepisce nella prossimità dei servizi. Ad esempio le informazioni sulle pratiche sono date in ogni Comune da un'assistente sociale. In Emilia Romagna si cerca di lavorare in rete, di fare sistema, approccio inesistente in gran parte del Paese. E' significativo che da circa dieci anni fa sia iniziata la formazione delle badanti. Dal 2014 l'impegno è sul fronte dei caregiver familiari, prendendo spunto da esperienze europee, come quella della Francia, che si è dotata a partire dal 2019 di un vero e proprio piano per fronteggiare i problemi connessi all'invecchiamento della popolazione.

A chi è rivolto il suo libro e quale messaggio vuol mandare?
In generale ai cittadini considerata la vastità e l'urgenza dei problemi sollevati. Le statistiche ufficiali dicono che 15 milioni e settecentomila persone sono coinvolte nell'assistenza, anche saltuaria, a persone disabili e non autosufficienti. Ebbene nell'ultimo capitolo, in base alle ricerche demografiche, affermo che questo numero è destinato a salire, con grande aggravio dei costi nella spesa pubblica. Poi è rivolto ai volontari e alle loro associazioni che pur dispiegando una grande e concreta solidarietà verso i più fragili non hanno spesso una visione d'insieme e non fanno rete. In questo settore anche i vari governi prendono provvedimenti come "bonus" che cercano di accontentare quote di elettori, ma non si vede un disegno coerente e di ampio respiro. Qualche novità potrebbe venire con il PNRR, ma è presto per dirlo con certezza.

In apertura, foto di Claudio Schwarz by Unsplash


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