Welfare & Lavoro

La giustizia riparativa alla prova dei reati di mafia

Il terzo focus del nostro viaggio sulle esperienze di giustizia riparativa (nelle correlate le prime due uscite). Un mafioso può capire il danno che ha provocato alle vittime e alla società civile e dialogare con loro a partire da valori condivisi? Il dramma di una vittima e il percorso riparativo di un detenuto per reati di criminalità organizzata

di Luca Cereda

A Pizzolungo (foto in cover), vicino a Trapani, il 2 aprile del 1985 «sono stati uccisi dalla mafia mia madre, che aveva 31 anni, i miei fratelli che ne avevano 6 ed erano gemelli, Giuseppe e Salvatore», racconta Margherita Asta, figlia, sorella: da quel giorno, famigliare di vittime di mafia.

In questa storia, però, Margherita stessa ritiene che non sia soltanto lei la vittima vittima, non sono vittime solo Giuseppe e Salvatore Asta e Barbara Rizzo: «È vittima anche Carlo Palermo: il magistrato che non ha perso la vita, ma che comunque è stato ucciso sia dal punto di vista professionale, perché dopo quell’attentato fallito nei suoi confronti è stato costretto a lasciare la magistratura, sia dal punto di vista psicologico. La prima volta che ci siamo incontrati mi disse proprio che quella era una tara che si portava nel cuore e nella mente, quella di aver provocato involontariamente, però di aver provocato, la morte di persone innocenti». E aggiunge: «Secondo me in attentati come quello che mi ha stravolto la vita, una strage di Cosa nostra, vedi due tipi di rei: uno che lo fa per disperazione e l’altro che lo fa soltanto per avere sempre di più». Più soldi, fama malavitosa, rispetto di quel sostrato culturale mafioso in cui è cresciuto.

Dalle stragi ai reati violenti: il marchio mafioso è indelebile nel reo?
«Quella mattina, per non fare tardi – continua Margherita Asta –, decisi di andare a scuola con una vicina di casa. Quindi passai dal luogo della strage, 5 o 10 minuti prima rispetto a loro, perché altrimenti a ci sarei stata anch’io nella macchina. Ogni mattina avevo percorso con loro quella strada. La storia di mia madre e dei miei fratelli dimostra che chiunque potrebbe essere colpito dalla mafia. Sono stati uccisi da una autobomba preparata per uccidere un magistrato. Quando la macchina di mia mamma si è trovata tra la macchina del Giudice Palermo, che la stava per sorpassare, e l’autobomba è stato pigiato il pulsante, l’autobomba è esplosa e la macchina di mia mamma è stata disintegrata».

Questa strage è shockante, ma ha un presupposto che la accomuna a tutti i reati di mafia: essere originata da una cultura della sopraffazione, della violenza, che a una retorica che parla di uomini d’onore, mette di fronte una realtà in cui donne e bambini vengono trucidati. Partendo da questi presupposti, è possibile con detenuti di reati di mafia intraprendere percorsi riparativi che punto al risanamento dello strappo creato dal reato, attraverso forme di incontro e di dialogo? Perché il dialogo esiste se ci sono punti in comune.

L’obiettivo di questo reportage di VITA sulla giustizia ripatativa, giunto alla terza puntata, non è quello di descrivere i numeri di quanti mafiosi nelle carceri italiane hanno intrapreso un percorso riparativo: i numeri si è detto detto, non ci sono e su questo fronte, grazie alla riforma Cartabia, si potrà iniziare presto a lavorare ad un censimento. Si desidera sollecitare riflessioni sull complessità dell’evento “reato” in tutte le sue molteplici implicazioni: psicologiche, sociologiche, emotive. Implicazioni che riguardano tutti i soggetti coinvolti anche quando si tratta di reati di mafia.

Trasgredire e riparare
Lo psicologo Angelo Aparo nelle carceri milanesi ha fondato nel 1997 il “Gruppo della trasgressione” con cui realizza percorsi di giustizia riparativa con anche detenuti per reati di mafia. Prima che si arrivi al punto di far incontrare rei con la società civile, che entra in carcere per far sentire chi è dentro, parte della società che sta fuori, il Gruppo lavora sull’auto-percezione di quello che è il danno che il reato ha inflitto allo stesso autore. «In carcere bisogna innanzitutto promuovere nel detenuto quella riflessione che non c’era al momento del reato, per recuperare la coscienza della parentela fra il reo e la vittima, l’appartenenza alla stessa comunità anche quando in mezzo c’è l’esplosione drammatica e insanguinata di un’auto che spazza via due bambini e una madre in una strage premeditata che segna anche il destinatario di quell’autobomba, un uomo dello Stato, il magistrato Palermo. E come questa tante altre sono state ordite da uomini di mafia. Queste persone possono riuscire a vedere che dietro quel pulsante premuto, le vite spazzate via erano quelle di persone, donne, uomini e bambini come lo sono stati loro, famiglie intere cancellate, o segnate per sempre da quella striscia di sangue?

In carcere bisogna innanzitutto promuovere nel detenuto quella riflessione che non c’era al momento del reato, per recuperare la coscienza della parentela fra il reo e la vittima

Gli “strappi” dei reati di mafia
Un lembo dello strappo che la giustizia riparativa prova a ricucire è costituito dai rei, anche di crimini legati alla criminalità organizzata. Tra loro c’è Adriano, detenuto da oltre 20 anni per reati di Camorra nel carcere di Opera. Quasi 10 anni fa, ormai, entra nel Gruppo della trasgressione e da quel momento inizia a muovere i primi passi di presa di coscienza del suo passato e dei valori che lo hanno caratterizzato. «Sono entrato in carcere da colpevole ma mi sentivo una vittima. Ora che ho preso coscienza che anche se ho ammazzato altri camorristi, ho commesso strappi irreparabili, mi rendo conto che il colpevole sono io. Ora che sono sottoposto all’articolo 21 della norma penitenziaria, sto lavorando anche fuori dal carcere dove compro frutta all’ortomercato di Milano per poi rivenderla nei ristoranti con la cooperativa che abbiamo creato. Così facendo tento di ricucire lo strappo, non tanto con le vittime dirette dei miei crimini, ma con la società, anch’essa strappata dalle mie azioni». Un percorso riparativo che parte da dentro: dentro la testa del detenuto di reati di mafia, con un cambio dei suoi valori di riferimento, dentro il carcere, grazie ai percorsi di giustizia riparativa, e dentro la società, di cui gli istituti di pena fanno parte.

Quando la giustizia è rigenerativa
Anche Alessandro, detenuto come Adriano per reati di criminalità organizzata, racconta che non bisogna pensare che l’ambiente ‘difficile’ sia una scusa: è solo uno degli elementi che porta a compiere certe azioni. «Una volta in carcere e fatti certi percorsi di riflessione e pensiero, sono finalmente riuscito, per la prima volta, ad immedesimarmi nell’altro. E da quel momento ho capito che la bellezza della vita sono i rapporti, liberi: così ho deciso di investire la mia vita per raccontare ai giovani e a tutti la mia esperienza così che loro potessero ricevere da me ma che io possa ricevere esperienze e valori da loro».

Queste storie sono paradigma del fatto che il cambiamento dopo un percorso riparativo è possibile anche in chi è cresciuto nell’orizzonte della cultura mafiosa, è necessario di eliminare le categorie che separano chi sta fuori da chi sta dentro al carcere: ai detenuti va ridata fiducia, perché possano riconoscere il male fatto anche attraverso il dialogo diretto con la vittima e con la società che hanno lacerato per tornare a farne parte con attori di quel cambiamento.

Nell’immaginario collettivo, per una questione di scarsa informazione e di slogan politici come “buttiamo via la chiave”, non c’è nessuna idea del fatto che in carcere si possa fare anche con detenuti di questo tipo un percorso di riparazione del danno sociale: né che questo percorso lo si debba fare perché è ciò che chiede la Costituzione. Perché la pena è questo. Con la speranza che la “messa a sistema” delle pratiche riparative ovunque, non solo laddove ci siano fuori dal carcere realtà auto-organizzate, possano rendere la pena rieducativa e riparativa sempre.


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