Welfare & Lavoro

Paralimpiadi: pioggia di medaglia, ma in primo piano ci sono sempre le menomazioni

Mai come a Tokyo i media stanno dimostrando attenzione nei confronti degli atleti con disabilità. Ma le performance sportive (ottime per l'Italia sino ad ora) vengono ancora troppo spesso oscurate dall'insistenza con cui alcuni giornalisti (non tutti) insistono sulle vicende personali degli atleti. Pencoliamo pigramente tra due polarizzazioni: il pietismo e il supereroismo. In questa chiave, per le persone con disabilità non è concepibile una condizione di normalità, di vita ordinaria così come è invece innegabile per tutti gli altri

di Pietro Barbieri

Un fatto incontrovertibile: mai come in questa edizione i media hanno restituito così ampia visibilità alle Paralimpiadi, in passato confinate nelle ultime pagine e di certo non fra le notizie di testa dei TG. Ma è un traguardo che rende ancora più fastidiosi e pericolosi alcuni dei messaggi veicolati. Nel seguire i Giochi di Tokyo ripetutamente ci si sente ancora inghiottiti nel gorgo del pietistico e sensazionalistico. Colpisce. Colpisce che alcuni media ancora oggi pongano in risalto la condizione di menomazione della persona, e non l’atto sportivo, quello primario, quello bello e avvincente che riguarda qualunque atleta.

Si mette davanti la storia personale al primato atletico. C’è un incedere quasi naturale nell’intervistare un atleta con disabilità iniziando, e spesso terminando, dalla narrazione di quale evento ha causato la menomazione e come sia straordinario l’aver conquistato un podio da una condizione così ‘spiacevole’. Quasi solo una rivincita e non la ricerca di una normalità e di una umanissima passione. A Tokyo lo abbiamo visto fin dalla prima giornata delle Paralimpiadi. Alcuni media hanno praticato una forma nuova di vecchi vizi che ci si augurava superati. Paolo Rosi, commentatore delle Olimpiadi di Seul 1988, preferiva evitare la cronaca le gare degli atleti con disabilità, e quando ne era costretto arrivava a chiedere di “fermare questi poveretti”. Seul 88 fu la prima ed unica Olimpiade integrata. Si alternavano gare gli atleti con e senza disabilita. Questo picco di rifiuto verso gli atleti con disabilità, era solo l’apice di un approccio assai diffuso all’epoca.

Oggi la questione si fa più perniciosa e subdola. Nessuno oserebbe più usare quei termini o quei silenzi. Si racconta però dell’incidente, dell’evento lesivo, della condizione biologica, o della condizione fisica o psichica di una persona, con un malcelato voyeurismo che poco ha a che spartire con lo sport. Il risultato sportivo diventa un “di cui”, un marginalissimo accidente che mette in risalto non il gesto atletico, ma il risultato umano di chi ha passato vicende particolarmente tortuose e sfidanti. Il protagonista è un supereroe. Pencoliamo pigramente tra due polarizzazioni: il pietismo e il supereroismo. In questa chiave, per le persone con disabilità non è concepibile una condizione di normalità, di vita ordinaria così come è invece innegabile per tutti gli altri. A ben vedere questa è una forma di pregiudizio e quindi la discriminazione, forse proprio la primordiale.

L’incubo della forza negativa delle parole trova in Carlo Levi un esegeta critico, forse tra i primi. Anche partendo dalla consapevolezza del peso delle parole che di recente si è giunti a delineare, e finalmente a stigmatizzare, il concetto di abilismo. E in questo ha contribuito anche il dibattito attorno al DdL Zan che questi aspetti li recepisce. E in aggiunta a retropensieri abilistici, raccogliamo un florilegio di locuzioni e termini francamente fastidiose, distorte, omissive, umilianti…

È umiliante poi essere etichettati come “angeli”: non c’è nulla di angelico nel vivere la disabilità che invece nella quotidianità è pura discriminazione di cui le persone non vogliono essere certo testimoni. Altrettanto per il presunto “coraggio” che è brandito più come un’arma soffocante. Per finire con chi fa un gesto atletico, e sente che quel risultato avviene “nonostante la disabilità”. Ebbene, queste parole le abbiamo ascoltate in alcuni seguitissimi telegiornali (Tg1, Tg3 e Tg5).

Al contrario il Tg de La 7 e la diretta su Radio 1 di Sandro Fioravanti sono riusciti a presentare l’evento sportivo senza gli orpelli dell’abilismo e senza lemmi oramai vecchi e stridenti, oltre che lesivi. Sì, ci sono modelli positivi di comunicazione della disabilità a cui fare riferimento. Questa la vera differenza (positiva) tra il 1988 e oggi. Probabilmente, decenni di lavoro attorno comunicazione sulla disabilita nel tentativo di renderla corretta e ripulita da pregiudizi qualche segno l’ha lasciato. Ma non basta e allora tentiamo di marcare almeno qualche punto fisso da cui ripartire

  • Il primo: gli atleti con disabilità gareggiano a parità di condizione, quindi i loro competitor hanno un’analoga disabilità; tutti i partecipanti hanno una qualche disabilità, non solo chi vince.
  • Tutti gli atleti sono esseri umani che hanno dei limiti ovvero sia anche Marcel Jacobs ha un tempo sui 100 mt oltre il quale non riesce a scendere. Quello non si chiama “limite”, ma “record personale”.
  • E da ultimo: lo sport è una sfida con se stessi, con la propria capacità di superare i propri limiti, qualunque sia la condizione fisica e mentale. E questo per tutti.

foto da Facebook di Augusto Bizzi Fotografo/CIP: la staffetta mista 4×50 stile libero che con Giulia Terzi Arjola Trimi Luigi Beggiato Antonio Fantin ha vinto l'argento olimpico


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