Cooperazione & Relazioni internazionali

E se riconoscessimo “d’ufficio” lo status di rifugiato ai 4900 afghani?

«Il Governo starebbe ragionando sulla possibilità di riconoscere d’ufficio lo status di rifugiato a chiunque sia arrivato in Italia dall’Afghanistan con l’operazione Aquila Omnia, iniziata a giugno». E’ quanto rivelano fonti ministeriali a Vita. Si tratta, al momento, solo di un’ipotesi. «Questa strada è tecnicamente possibile e percorribile, e anche auspicabile. Ma rischia di creare una disparità nei confronti di coloro che scappano da altri contesti e che hanno presentato in Italia una richiesta di protezione internazionale», commenta Salvatore Petronella, esperto di politiche migratorie.

di Sabina Pignataro

«Il Governo starebbe ragionando sulla possibilità di riconoscere d’ufficio lo status di rifugiato a chiunque sia arrivato in Italia dall’Afghanistan con l’operazione Aquila Omnia, iniziata a giugno». E’ quanto rivelano fonti ministeriali a Vita. Si tratta, al momento, solo di una ipotesi e coinvolgerebbe circa 4900 persone.
Secondo Salvatore Petronella, esperto di politiche migratorie e collaboratore di diverse organizzazioni internazionali, tra cui la Commissione Europea, le Nazioni Unite e il Centro Internazionale per lo Sviluppo di Politiche Migratorie, «questa strada è tecnicamente possibile e percorribile, e anche auspicabile. Ma rischia di creare una disparità nei confronti di coloro che scappano da altri contesti e che hanno presentato in Italia una richiesta di protezione internazionale perché perseguitati per motivi religiosi, politici, etnici o di genere».

Petronella, cosa ne pensa?
Pur non conoscendone i dettagli, mi sembra chiaro che questa, come altre iniziative a livello internazionale, sia motivata dall’esigenza di garantire immediata protezione a un considerevole numero di cittadini afgani. Penso possa trattarsi di coloro che, a vario titolo, hanno collaborato con gli italiani, come interpreti, attivisti per i diritti civili, ma anche a chi ha lavorato in ambasciata, come autisti e chef.
E’ una strada percorribile. E anche auspicabile. Ma non priva di rischi.

Quali sono?
C’è il rischio che gli altri richiedenti asilo, coinvolti da guerre civili o violenze etnico-religiose, potrebbero avere la sensazione di essere percepiti (e trattati) come cittadini di serie B. Per quale motivo loro dovrebbero seguire l’iter tradizionale e attendere più a lungo il riconoscimento del loro status? Temo possa crearsi un precedente che potrebbe essere difficile da gestire o replicare nei confronti di altre emergenze umanitarie, passate e future.

Lunedì Chiara Saraceno ha scritto su Repubblica che «non dovremmo utilizzare due pesi e due misure». Riprendendo le parole di Cecilia Strada ha poi aggiunto «mentre si sono accolti con affetto e attenzione i rifugiati afghani che sono arrivati a Fiumicino con voli organizzati dallo Stato, si continuano a ignorare i disperati (inclusi i bambini) che si accalcano alle varie frontiere europee».
Sono d’accordo. Ci sono conflitti ed emergenze umanitarie, come quelle in Libia o nel Corno d’Africa e Medio Oriente che non godono della stessa attenzione da parte dei media e anche della diplomazia europea.
Ad ogni modo, prima di esprimere un giudizio, bisognerà vedere come il governo intenderà presentare e motivare tale decisione, ma anche capire la posizione a livello UE.

In che senso?
Come in tutte le sfere della politica e delle politiche, il governo persegue obiettivi dettati da priorità, anche di natura internazionale. Qualora l’Italia rimanesse inerte, potrebbe essere criticata per non aver fatto la sua parte per proteggere i cittadini afgani. D’altro lato, nel caso prendesse tale decisione, potrebbe dover affrontare i mugugni di una parte non solo dell’elettorato ma anche di alcuni Stati membri dell’UE che sono arroccati su posizioni chiaramente opposte.
Non vorrei che tale approccio fosse dettato più dalla paura di perdere credibilità a livello internazionale che dalla volontà del governo di cambiar rotta in tema di politiche d’accoglienza. Sarebbe un’occasione persa qualora fosse solo un’operazione di facciata.

Proprio ieri (31 agosto) si è tenuta una sessione straordinaria del Consiglio Europeo Giustizia e Affari Interni. Come si stanno muovendo gli altri Stati Membri?
Nonostante le politiche migratorie siano di competenza nazionale, ieri, al termine dell’incontro, la ministra dell'Interno Luciana Lamorgese ha riferito che «è stata manifestata da parte di tutti i Paesi la piena disponibilità ad un approccio ordinato e completo degli arrivi degli afghani e a partecipare anche all'accoglienza di persone che fuggono da situazioni difficili».
Questo in teoria. Ma occorrerà vedere in pratica. Di solito, a livello europeo la questione ‘protezione frontiere’ prevale sulla creazione di un piano di accoglienza a livello comunitario. Nel 2015, quando oltre un milione di siriani marciarono lungo la rotta balcanica, trovando il sistema UE impreparato, i Ventisette erano divisi. Ancora oggi è così: Austria e Ungheria chiedono di «chiudere i confini»; il presidente francese Macron ha espresso preoccupazione per il pericolo di una «ondata di immigrazione clandestina incontrollata» e la cancelliera tedesca Angela Merkel ha indicato il Pakistan come la meta ideale dove poter intervenire per aiutare i profughi.

Anche questa volta, manca un coordinamento europeo insomma…
Negli ultimi giorni ci sono state richieste, tra cui quella di alcuni Parlamentari europei, di attivare uno strumento concordato nel 2001, la Direttiva 2001/55, che prescrive la concessione di una «protezione temporanea» in caso di afflussi massicci legati a situazioni di emergenza. La «protezione temporanea» verrebbe in quel assicurata indistintamente a tutte le persone provenienti dall’area geografica in questione, senza bisogno di una valutazione personale. Tuttavia la vedo una strada difficile da percorrere: il testo, che presenta diverse lacune, prevede che il meccanismo (mai usato in precedenza) possa essere attivato solo in presenza di una maggioranza qualificata tra gli Stati membri: reputo non ci siano i presupposti politici.

La volontà prevalente quindi sembra essere quella dell’”assistenza a casa loro”.
Meglio, nelle regioni limitrofi. Interessante anche quanto riportato in questi giorni da diverse fonti, circa l’intenzione della comunità internazionale di dare risposte concrete alla necessità di proteggere cittadini afgani per mezzo di azioni di ricollocamento temporaneo sul territorio di paesi ‘amici’. Ad esempio, l’Albania, la Polonia o lo stesso Rwanda si sono offerti di ospitare cittadini afgani destinati ad arrivare negli Stati Uniti. Un modo per aiutare ‘altrove’ ma senza farsene pienamente carico.

In Italia, spesso, le procedure di riconoscimento dello status di rifugiato sono ingolfate e le pratiche giacciono sul tavolo dei funzionari italiani per svariati mesi…
Il quadro normativo europeo lascia un margine di discrezione agli Stati membri circa la durata delle procedure di riconoscimento. Per l’Italia, è di 6 mesi. E’ vero che tale limite non viene sempre rispettato e ciò dipende da una serie di fattori, ad esempio molti ritardi possono essere dovuti al volume delle richieste, alla mancanza di sufficiente personale o interpreti (nel caso di determinate nazionalità). Inoltre, l’iter di riconoscimento viene a volte ritardato dalla necessità di attivare altre procedure, tra cui l’esame del possibile trasferimento della richiesta ad un altro stato membro competente (tramite il sistema Dublino).

Ha citato il Regolamento Dublino: benché ancora in fase di revisione, rimane uno dei testi legislativi più discusso e criticato. Perché?
Se da un punto di vista geografico il sistema Dublino ‘svantaggia’ gli stati più esposti ad arrivi (quindi sulle frontiere esterne UE, come l’Italia o ultimamente la Lituania), da un punto di vista gestionale, non tiene conto delle reali capacità di assorbimento dei rifugiati nel tessuto socio-economico e dal punto di vista dei richiedenti asilo non sempre permette loro di essere registrati (ed eventualmente riconosciuti) nel paese di preferenza.

Perché è così importante un rapido riconoscimento dello status di rifugiato?
Ad una persona che fa domanda di riconoscimento non appena arrivata in Italia non è consentito soggiornare in un altro Stato europeo. In pratica, deve rimanere nel nostro Paese anche se non lo desidera. In base al Regolamento di Dublino, i paesi di primo ingresso sono responsabili dell’accoglienza e dell’esame delle domande di protezione internazionale presentate da un richiedente asilo (non cittadino comunitario o apolide).

In attesa che il Governo italiano prenda posizione, cosa attende i circa 4900 afghani arrivati in Italia? Quanto tempo staranno in un centro di prima accoglienza? Qual è l’iter?
Più che l’iter (che ha la sua durata, limiti ma anche considerevoli margini di miglioramento) mi preme sottolineare la necessità di garantire a chiunque ottenga protezione internazionale un ingresso, il più celere possibile, nel tessuto economico e sociale tale da garantirne un’effettiva integrazione. Qualora confermato, 4900 potrebbe essere considerato un numero alto, ma si tratta di fatto di circa 50 persone accolte in 100 città italiane. Molti enti locali italiani si sono già mobilitati (anche a livello internazionale) per assorbire tali numeri. Non tanto sul piano della mera capacità gestionale del fenomeno: la sfida più importante mi sembra si giochi sul tavolo dell’accoglienza culturale. E riguarda ognuno di noi.

Foto in apertura: Sohaib Ghyasi by Unsplash


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