Welfare & Lavoro

Una nuova politica? Ci vuole immaginazione

Quello che oggi manca, a tutti i livelli dell'amministrazione pubblica, è il riportare l'energia delle comunità dentro la politica. «Il più grande serbatoio di immaginazione si trova nell'attivismo civico. Donne, uomini e cittadini migranti che attivano nei quartieri progetti e nuove forme organizzative fluide che non trovano spazio nel perimetro politico», spiega Michele D'Alena, responsabile dell’Ufficio Immaginazione Civica della Fondazione per l’Innovazione Urbana del Comune di Bologna, che ha appeno pubblicato il libro che si chiama proprio “Immaginazione civica” (Luca Sossella Editore, 2021 - collana cheFare). L'intervista

di Lorenzo Maria Alvaro

A Milano sorge all'interno della Stazione Centrale di Milano il nuovo Mercato Centrale, ultimo tassello di una città a misura di ricco, poche settimane fa vedevamo bruciare un palazzo che rappresentava quella che è stata chiamata dall'urbanista Christian Novak l'ideologia delle torri, in questi giorni speriamo si possa scongiurare il caro bollette (+ 40% dal mese prossimo cui si aggiunge l'aumento del 20% già avvenuto nel trimestre scorso). Possono sembrare fatti di cronaca o avvenimenti slegati tra loro. Ma in tutti questi casi risulta evidente come ci sia un fil rouge: la mano dell'amministrazione pubblica (locale e nazionale) che opera completamente scollegata dalla realtà. O, per meglio dire, completamente slegata dai propri cittadini e dai loro bisogni. Quello cui stiamo assistendo è una crisi di un modello cui però a quanto pare non si riesce a rinunciare. Ne abbiamo parlato con Michele D'Alena, responsabile dell’Ufficio Immaginazione Civica della Fondazione per l’Innovazione Urbana di Bologna (un centro di analisi, comunicazione, elaborazione e co-produzione sulle trasformazioni urbane per affrontare le sfide sociali, ambientali e tecnologiche ndr), appena uscito con la sua ultima fatica editoriale, edita da CheFare, che si chiama proprio “Immaginazione civica” (Luca Sossella Editore, 2021 – collana cheFare). «Abbiamo un'enorme bisogno di riconnettere il Paese dando potere, risorse e tempo a chi costruisce alleanze territoriali». L'intervista.


Il titolo, così come la fondazione per cui lavora, si chiama “immaginazione civica”. Un termine curioso. È la stessa parola che ha usato Elena Granata, professoressa di Urbanistica e Analisi della città e del territorio al Politecnico di Milano e vicepresidente della Scuola di Economia Civile, commentando le politiche urbanistiche di Milano. Diceva: “il problema è che c'è un vuoto di immaginazione”…
Naturalmente è il nome dell'ufficio che coordino, voluto dal Comune di Bologna e dall’Assessore Lepore ora candidato Sindaco, un team multiprofessionale che ha come obiettivo il portare le energie civiche all'interno del perimetro pubblico. C'è un'enorme creatività e nuovi modi di attivismo. Le persone si attivano nel micro dando vita a nuovi modelli economici e mutualistici che arrivano anche ad un livello più alto. I cittadini costruiscono alternative al sistema capitalistico estrattivo. Basti guardare i tantissimi spazi rigenerati all'interno delle città: si va da piccoli progetti antagonisti, fino a grandi progetti cooperativi che coinvolgono fondi di investimento. Ex fabbriche, ex stazioni, ex caserme diventano luoghi con modelli economici e organizzativi diversi, con nuove offerte culturali, spesso con nuove forme di alleanze. Si crea lavoro, servizi ma anche nuovi immaginari.

Ma perché parlare di immaginazione e non semplicemente di partecipazione o co-progettazione?
Bologna ha un humus e una tradizione molto forti nell'ambito della partecipazione e dell'innovazione amministrativa. Qui sono nati gli asili pubblici, la prima rete civica su web e il primo spazio per la comunità lgtb, per citarne alcune. Vogliamo superare la sola fase della partecipazione della collaborazione. Dare più potere ai cittadini. La parola “immaginazione” viene dal libro di David Graeber, l'anarchico di Occupy, “Oltre il potere e la burocrazia. L'immaginazione contro la violenza, l'ignoranza e la stupidità” (Elèuthera, 2013), in cui spiega che stiamo seguendo dei modelli che sono il problema. Continuare a seguire l'approccio burocratico è il problema. Dobbiamo immaginare nuove soluzioni. Il più grande serbatoio di immaginazione si trova nell'attivismo civico. Donne, uomini e cittadini migranti che attivano nei quartieri progetti e nuove forme organizzative fluide che non trovano spazio nel perimetro politico, che sia locale o nazionale. Siamo ancora fermi al metodo del '900 che prevedeva l'andare al circolo del partito per fare presente i problemi e le istanze. Oggi tutto questo non c'è più: manca la cinghia di trasmissione tra base e rappresentanza.

E questo spiega anche la rabbia?
Non c'è dubbio. È vent'anni che chiudiamo ospedali, biblioteche, non riqualifichiamo piazze e privatizziamo gli spazi pubblici. Le persone oggi non si fidano di nessuno, è il tempo della sfiducia. Per questo serve tempo per riaprire spazi dove incontrarsi e immaginare in modo collettivo un futuro diverso. Non è semplice, l'immaginazione è anche dotarsi di nuove competenze che mischiano sociologia, urbanistica ma anche empatia e gestione dei conflitti.

Per avere immaginazione serve un immaginario, bisogna cioè avere orizzonte e ideali. Oggi a dominare è l'idea che a condurre il cambiamento debba essere il mercato piuttosto che la politica. Che immaginario è?
La situazione è grave. Il mercato fa il mercato. E oggi il mercato è fatto per accumulare ricchezza e non per redistribuirla. Questo è uno dei grandissimi errori che, quando affrontiamo la crisi politica, commettiamo. Se si parla di politica si parla di potere. Chi ha il potere di far accadere le cose. Una volta erano i partiti. Con la crisi dei partiti e il mercato in salute porta a questo squilibrio. Che deflagra pericolosamente quando si viene investiti da una grave crisi come quella pandemica. Ma bisogna essere chiari: la politica è subalterna al mercato perché crede che sia giusto non per condizione. Bologna in qualche modo lo dimostra. Servono una visione politica, risorse e azioni.

Non basta insomma una petizione su Change.org…
No serve tanto tempo. Non si risolve in sei mesi. Serve una visione politica che decida di dare spazio ai cittadini per la condivisione le sfide del nostro tempo. E servono risorse. Sul Piano nazionale di resilienza e resistenza, il più grande investimento pubblico dal dopoguerra, in che modo coinvolgiamo chi alla fine sta gestendo le nostre città? Vedere così tanti cittadini che rifiutano di partecipare in modo classico ma si attivano in modi diversi ci deve far chiedere come gestire, politicamente, questa energia.

Eppure quasi tutti i partiti parlano di partecipazione…
Facciamo un esempio concreto. Le Agorà del Partito Democratico non possono essere solo una piattaforma tecnologica che è fatta benissimo ma manca però completamente il rapporto emotivo e fisico con la gente. Da dove vengono e che fine fanno le proposte? È il modello del sistema 5 stelle che non ha alcun rapporto strutturato con il territorio. Ma qualcuno davvero crede che le persone di Lorenteggio o Pilastro, quartieri fragili di Milano e Bologna, o dalle cittadine dalle aree interne del paese, vanno su una piattaforma a dire che l'asilo chiude o che il campo da basket è in stato di abbandono da anni? Abbiamo un'enorme bisogno di riconnettere il Paese.

Ma nella pratica tutto questo come si può fare?
Creando il collettore di queste comunità. Dando potere, risorse e tempo a chi costruisce alleanze territoriali. Questo lo possono fare solo delle visioni politiche. È la base della sussidiarietà verticale. Dentro i partiti e nelle pubbliche amministrazioni si possono creare progetti con questi obiettivi, con il giusto tempo, distribuendo potere a chi non ce l’ha, cambiando le regole del gioco che ad oggi rischia di premiare chi il potere ce l’ha già. Ma anche tra i cittadini e le realtà civiche si possono organizzare per far sentire la propria voce.

Quindi a suo avviso noi abbiamo la ricetta e anche gli ingredienti. Quello che manca è lo chef?
Sì quello che manca è la consapevolezza che serva un nuovo modello organizzativo. Nel libro racconto alcune nuove organizzazioni ponte sulla prossimità. Porto tra gli altri i casi di Trieste, casi olandesi e la stessa Bologna riprendendo le lezioni del femminismo: possiamo organizzarci con più empatia, tra alto e basso, tra chi decide e chi fa accadere realmente le cose. Non è un caso che le istituzioni con più fiducia tra i cittadini sono quelle più vicine territorialmente, i quartieri, i comuni.

Fin qui abbiamo parlato della ricetta. Gli ingredienti?
Mi permetta di fare prima un esempio: guardiamo a cosa è successo con le piattaforme del food delivery. Quando la politica ha provato a discutere con loro la risposta è stata un'alleanza tra piattaforme che ha prima rifiutato di riconoscere il tavolo del Ministero dello Stato italiano e poi generato un accordo con un sindacato minoritario con cui hanno creato un contratto collettivo ad hoc per le proprie esigenze. Questo è il mercato. Ma esistono le alternative: ci sono decine di delivery etici a Bologna, Firenze, Bergamo, Barcellona, Madrid. Tutte realtà urbane sostenibili. Quello che non c'è è una visione che le mette insieme secondo un criterio diverso da quello del mercato. Quindi gli ingredienti ci sono. Ma alla stesso tempo quanti cittadini sono consapevoli che se non pagano una consegna di una pizza a casa stanno sfruttando dei lavoratori?

Il problema, lei dice, è politico. Eppure immagina una soluzione che venga dalla politica. Non è un controsenso?
Il motore del Paese è la pubblica amministrazione, che lavora per bandi o assegnazioni dirette. Ci sono moltissimi sindaci che stanno scardinando questo status quo burocratico, che si pongono come nuove figure collanti tra le varie anime delle cittadine e dei paesi che amministrano. È un esercito di sindaci che hanno fatto, ad esempio, i patti di collaborazione, il regolamento amministrativo che permette di creare patti di collaborazione con gruppi informali di cittadini. Una rivoluzione. Questo metodo lo udiamo solo per dare il bianco alle panchine del parco o decidiamo di farci dare una mano per ripensare le nostre democrazie? Quindi abbiamo tanti leader, non mancano, con nuovi modelli di leadership: parlano di collaborazione e non di decisione, di apertura e non chiusura. Bisogna metterli insieme. Una rete di sindaci, insieme all'attivismo civico e le energie del Terzo settore con le risorse del Pnrr possono fare la differenza. E non è utopia: come il primo asilo nido italiano, quello di Bologna, era visto come una follia e poi è diventata politica pubblica, così tante altre proposte potranno fare lo stesso percorso. Serve solo un po' di coraggio, come a Bologna.

Ha citato il Terzo settore. Recentemente, sul numero di VITA di settembre, Stefano Zamagni scrive nell'editoriale che «il problema più serio delle società dell’Occidente avanzato è oggi quello di una carenza di fraternità, vale a dire di amicizia civile». E che in questo senso il purpose del volontariato è e deve essere proprio generare legami di amicizia civile. Il Terzo settore può candidarsi a essere quel collettore di comunità che manca all'equazione?
Può esserlo. Ma anche questo mare magnum di realtà che compongono quel grande mondo che chiamiamo Terzo settore deve essere supportata rifuggendo dalla logica di mercato di cui rischia, spesso, di essere vittima. C'è grande competizione tra le realtà sociali, perché devono sopravvivere e portare a casa il bilancio. E, come ho sentito dire da un attivista, da eroi della pandemia rischiano di diventare vittime. Anche qui ci vengono incontro tante esperienze locali che reinventano la relazione pubblico-privato. Torno a ripeterlo: bisogna metterle a sistema senza ricorrere alla tentazione concreta di riproporre l'attuale modello fallimentare ma creando spazi di dialogo, confronto, scambio e anche conflitto, per generare nuovi immaginari.


In cover "Il Quarto Stato 2.0" di Andrea Mancini


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