Cooperazione & Relazioni internazionali

«Ora, nessuno cura più le mie pazienti ad Herat»

Nelle strutture di Fondazione Progetto Arca sono accolti diversi profughi afghani, tra loro anche le dottoresse che lavoravano nel Centro di prevenzione e diagnosi del tumore al seno aperto da Fondazione Umberto Veronesi una decina di anni fa e chiuso dai Talebani lo scorso agosto. Abbiamo incontrato una di loro

di Antonietta Nembri

Abbiamo incontrato Sarah (nome di fantasia, preferisce non divulgare quello vero perché in Afghanistan ci sono ancora alcuni membri della sua famiglia) in una delle strutture di Fondazione Progetto Arca che da fine agosto accoglie a Milano i profughi afghani giunti in Italia dopo la presa di potere dei Talebani. 34 anni, single, è medico specializzata in ginecologia come la sorella, anch’essa fuggita dall’Afghanistan e rifugiata in Italia. Con loro è fuggita anche la madre. Entrambe facevano parte dello staff del Centro di prevenzione e diagnosi del tumore al seno aperto da Fondazione Veronesi, ora chiuso.

Sarah è già stata nel nostro Paese, nel 2018 aveva seguito un training di aggiornamento all’Università di Perugia, sempre grazie al progetto della Fondazione Veronesi che a Herat nel 2013 aveva realizzato un centro all’avanguardia con uno staff di otto persone tra medici, tecniche radiologhe e di laboratorio, data manager e receptionist, personale tutto femminile e che in questi anni ha seguito, visitato e monitorato circa 9.300 donne.
Se quello di tre anni fa era stato un viaggio di lavoro, ora a condurla in Italia è stata la necessità di fuggire dai talebani. «Quando sono arrivati, hanno chiuso subito il centro perché la Fondazione Veronesi è una realtà straniera. Il problema è che i tumori invece non finiscono, non scompaiono e ora non c’è nessuno che cura le donne che fa prevenzione».

Arrivata a Roma e poi a Milano, dopo il periodo di quarantena in un Covid hotel – «un’esperienza un po’ stressante perché non sapevo dove ci avrebbero condotte, speravo in un luogo non troppo lontano dalla città» racconta – è stata accolta con la madre e la sorella nella struttura messa a disposizione da Progetto Arca. Al sollievo dell’arrivo a Milano, non può non affiancarsi però il timore per il resto della famiglia che è rimasta in Afghanistan. «Una parte di me era contenta di essere qui perché in Italia c’è pace, ma allo stesso tempo la preoccupazione per i miei fratelli e familiari non mi lascia tranquilla» confida.

In Italia da alcune settimane, si sta ancora ambientando ma sul suo futuro ha le idee chiare: «Vorrei imparare subito l’italiano, qui (nella struttura di Progetto Arca) ci faranno delle lezioni e non vedo l’ora di frequentarle. Sicuramente voglio continuare a fare il medico, se eserciterò a Milano non dipende da me, ma da dove mi manderanno. Milano mi piace, è una grande città e qui ho anche degli amici», rivela.

La sua terra però la porta nel cuore, il suo sogno è quello di poter tornare un giorno in Afghanistan, «ma potrò farlo quando le donne saranno di nuovo libere, finché ci sono i talebani è impossibile».
Negli ultimi venti anni le donne afghane hanno potuto sperimentare la libertà. «Anche prima che arrivassero loro (i talebani, ndr.) le donne erano un po’ più libere, potevano andare a scuola e all’università, avevano la possibilità di vestirsi come volevano. Tutto questo è stato cancellato durante il regime dei talebani: le donne dovevano vestirsi di nero, e non potevano uscire di casa e lavorare», racconta.
«Negli ultimi venti anni la libertà è tornata e molte ragazze e donne hanno vissuto liberamente, hanno studiato, lavorato… Americani ed europei hanno detto ai talebani di lasciare libertà alle donne, ma non lo faranno hanno già rimesso le loro regole», continua Sarah pensando al divieto di studio per le ragazze dopo i 12 anni.

Mentre parla gli occhi di Sarah si illuminano di una certezza: «Sarà dura rimettere le donne nella stessa condizione di prima perché le afghane hanno preso coscienza, tante ragazze non conoscono l’oppressione vissuta dalle loro madri, sarà più difficile farle smettere di lavorare, richiuderle a casa. Penso sia impossibile per le donne ora rimanere chiuse in casa, perché in questi vent’anni hanno preso coscienza dei loro diritti. Ci sarà una qualche resistenza».
Il suo resistere Sarah lo affida al suo lavoro, a quella che è la sua missione: curare le donne.

Nell'immagine in apertura Sarah

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