Welfare & Lavoro

Occupazione, la Unione Europea chiama il Terzo settore

Accanto al consistente e insostituibile apporto del volontariato, nel Terzo settore c’è un’importante componente di lavoro retribuito, in continua crescita numerica e qualitativa. Perciò è importante che si faccia avanti come soggetto che può contribuire positivamente alle trasformazioni del mondo del lavoro. Un’occasione può venire dal Pact for skills

di Gianluca Salvatori

Il Terzo settore ha un compito importante nella ripresa post-Covid. Più di uno, per la verità. Ma uno, in particolare, è cruciale anche se meno evidente: il ruolo di creazione e consolidamento di posti di lavoro. Tema sul quale le organizzazioni senza scopo di lucro hanno molto da dire, anche se a volte lo fanno senza la convinzione necessaria per ottenere ascolto.

Sappiamo che l’immagine più conosciuta del Terzo settore è quella di organizzazioni impegnate a soddisfare bisogni sociali trascurati o poco serviti, soprattutto nel campo del contrasto alla povertà e della emarginazione. Ma non sempre, e non a tutti, è chiaro l’impatto di questo impegno sul mondo del lavoro. Sembra difficile scardinare l’idea che il non profit faccia ricorso prevalentemente a lavoro non pagato. O che abbia a che fare perlopiù con lavori precari, di scarsa qualificazione e mal retribuiti.

I dati in realtà indicano senza equivoci che, accanto al consistente e insostituibile apporto del volontariato, nel Terzo settore c’è un’importante componente di lavoro retribuito, in continua crescita numerica e qualitativa. In Italia ogni cinque volontari c’è un lavoratore inquadrato in una delle forme organizzative del non profit (con una prevalenza delle cooperative sociali). E questa forza lavoro sempre più spesso ha profili specializzati ai quali corrispondono alti livelli di soddisfazione. Una consistente letteratura scientifica, basata su indagini empiriche, mostra come chi lavora nel Terzo settore è mediamente più motivato e gratificato rispetto a molti altri luoghi di lavoro. La sensazione di fare qualcosa di utile per gli altri si riflette sulla realizzazione di sé ed è una componente essenziale dell’esperienza lavorativa del non profit. Così come è anche comprovato che l’occupazione in questo settore reagisce alle crisi meglio delle imprese ordinarie, perché tende a ridurre gli utili piuttosto che i posti di lavoro. Inoltre, il Terzo settore svolge un ruolo che a ragion veduta si può definire fondamentale anche in quanto promuove l’inclusione sociale attraverso l’inserimento lavorativo. Il lavoro non solo è creato per soddisfare bisogni sociali e per corrispondere ad una richiesta di impieghi socialmente rilevanti, ma assolve anche ad una specifica funzione di integrazione sociale.

L’insieme di questi elementi fornisce un quadro che chiarisce perché il lavoro negli enti di Terzo settore abbia caratteristiche che lo rendono resistente anche di fronte ai peggiori scenari di distruzione di occupazione. Da anni a questa parte gli studiosi si confrontano, altalenando tra stime catastrofiche a scenari tranquillizzanti, nello sforzo di quantificare il saldo negativo che l’introduzione delle tecnologie dell’automazione produrrà sul mercato del lavoro. Ma tutti, senza eccezioni, convengono nel dire che le professioni della “cura”, dove empatia e intelligenza emotiva contano di più, saranno quelle meno facilmente sostituibili. E molte di queste sono appunto professioni che coincidono con gli ambiti in cui operano le organizzazioni non profit e dell’economia sociale: dal settore socio-assistenziale a quello educativo, dalla cultura alla rigenerazione comunitaria di aree marginali.

Perciò è importante che il Terzo settore si faccia avanti con più decisione come soggetto che può contribuire positivamente alle trasformazioni del mondo del lavoro, dando visibilità ai propri risultati e rivendicando più attenzione. Un’occasione può venire dal Pact for skills, che la Commissione europea ha lanciato come complemento della sua strategia di recovery. È un’iniziativa — una delle prime applicazioni concrete dello European Pillar of Social Rights — che chiama a raccolta imprese, autorità pubbliche, parti sociali e organizzazioni formative per individuare proposte e progetti in grado di rendere i finanziamenti europei più efficaci nell’accompagnare la transizione verso il nuovo mondo del lavoro. In particolare, intervenendo sul fronte del miglioramento delle competenze (upskilling) e su quello della riqualificazione professionale (reskilling).

Per il momento la voce del non profit è piuttosto flebile, benché quello dell’economia sociale sia uno dei settori che la Commissione dell’Unione Europea considera prioritari. Eppure, il Terzo settore può essere protagonista in entrambi gli ambiti: il suo sviluppo sempre più dipende da un upgrade delle competenze per affrontare il bisogno sociale (specie in ambito tecnologico, come ci ha mostrato la pandemia) e il suo orientamento all’economia della cura, intesa ampiamente, è una fondamentale chiave per accompagnare i lavoratori espulsi dai settori tradizionali verso nuove competenze, sempre più richieste. Upskilling e reskilling, per usare il gergo europeo, non sono soltanto compiti di per sé congeniali all’azione del Terzo settore, che può elencare una miriade di esperienze e pratiche di successo, ma sono attività che hanno da esprimere ancora un grande potenziale. Prendiamone atto e facciamolo comprendere.


*Gianluca Salvatori, segretario generale di Euricse


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