Cooperazione & Relazioni internazionali

260 milioni di persone saranno costrette a emigrare a causa dei cambiamenti climatici

A margine della Cop26 ActionAid pubblica il rapporto “Le migrazioni climatiche: rischi e sfide per le politiche di adattamento” che indaga i rischi e le opportunità della migrazione come risposta resiliente ai cambiamenti climatici

di Redazione

A margine della Cop26 ActionAid pubblica il rapporto “Le migrazioni climatiche: rischi e sfide per le politiche di adattamento” che indaga i rischi e le opportunità della migrazione come risposta resiliente ai cambiamenti climatici . Saranno circa 260 milioni – 86 milioni delle quali in Africa Sub-Sahariana – le persone che nei prossimi anni, a causa dei cambiamenti climatici, saranno costrette a emigrare, nella maggioranza dei casi all’interno del loro stesso Paese. E mentre il dibattito oscilla tra il considerare questi movimenti un’opportunità di adattamento ai fenomeni ambientali estremi o un impatto negativo di questi ultimi, la risposta della comunità internazionale rimane ancora limitata. Infatti, seppure esistano quadri normativi indirizzati al fenomeno della mobilità, le migrazioni climatiche rimangono un ambito caratterizzato da un vuoto di politiche, mancanza di risorse e di adeguati sistemi di protezione sociale per i migranti.

Emblema di questo vuoto sono le discussioni nell’ambito della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCC) riunita in questi giorni a Glasgow, in occasione di Cop26. Nonostante il tema della mobilità climatica sia stato affrontato all’interno dei negoziati – in particolare con riferimento alla questione dei meccanismi sui danni e le perdite, compresa l’istituzione di una task force dedicata agli sfollamenti – pochi sono i risultati raggiunti in termini di politiche e risorse impiegate in particolare sul fronte della risposta ai fenomeni migratori in relazione agli impatti e ai processi di adattamento ai cambiamenti climatici.

Eppure, le migrazioni climatiche sono già in atto: l’alterazione delle precipitazioni, l’aumento delle temperature e altri eventi ambientali estremi rendono le condizioni di vita delle popolazioni sempre più precarie, costringendole a spostarsi. Ne sono la prova i contadini e i lavoratori agricoli che dal Messico e dagli altri Paesi dell’America centrale migrano stagionalmente negli Stati Uniti, i pastori nella regione del Sahel che si spostano verso i sovraffollati centri urbani, i numerosi esodi rurali che interessano tutta l’Africa Sub-Sahariana, lo Sri Lanka, il Nepal, l’Afghanistan, il Pakistan e la Cina. Non solo, ma a preoccupare sono anche quelle comunità per cui spostarsi non è un'opzione, perché intrappolate all’interno di contesti degradati sotto il profilo socio-ambientale.

“Stiamo assistendo a un progressivo cambio di paradigma, che spinge per vedere la migrazione come un’opportunità di riposta adattiva e resiliente ai cambiamenti climatici. Tuttavia, questa visione rischia di promuovere un approccio che sposta il peso dell’adattamento sugli individui e sulla loro iniziativa anziché richiamare alla responsabilità gli Stati che maggiormente hanno contribuito all’attuale crisi climatica – attraverso risposte più incisive sul fronte della mitigazione e stanziamenti più cospicui per finanziare l’adattamento nei Paesi più colpiti. Una deresponsabilizzazione delle istituzioni che dietro alla narrativa “vincente” della mobilità nasconde il fallimento delle politiche contro i cambiamenti climatici” spiega Roberto Sensi, responsabile del programma sulle diseguaglianze globali di ActionAid.

Il tentativo portato avanti dalle organizzazioni internazionali specializzate, prima fra tutte l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, di promuovere un approccio che vede la mobilità come una risposta agli impatti negativi dei cambiamenti climatici e non un problema causato da questi ultimi deve fare inoltre i conti con un contesto internazionale dove le migrazioni non sono sufficientemente governate, come nel caso della mobilità interna ai paesi, o lo sono in chiave di repressione dei flussi e restringimento delle opportunità di asilo e regolarizzazione. In questo senso, seppur con alcuni passi in avanti da parte della giurisprudenza nazionale e internazionale – come mostra una recente sentenza della Corte di Cassazione in merito alla domanda di protezione per ragioni ambientali da parte di un cittadino nigeriano – ad oggi ai migranti climatici non è riconosciuto né lo status di rifugiato né l’accesso a sistemi di protezione sussidiaria.

“È urgente che il nostro Paese e la comunità internazionale agiscano in modo più incisivo e tempestivo per garantire meccanismi di protezione adeguati per coloro che, a causa di eventi ambientali estremi, sono costretti o scelgono di abbandonare le loro comunità. Allo stesso tempo è importante investire nei processi di adattamento delle comunità più vulnerabili al fine di migliorare la loro risposta resiliente e far sì che la mobilità rappresenti una delle possibili risposte al cambiamento climatico e non una necessità” conclude Roberto Sensi.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA