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Il doppio stigma usa le persone e non funziona

Quando parliamo di comunicazione sociale, ossia di una comunicazione rivolta a costituire il motore del cambiamento culturale e sociale promosso da enti e soggetti di terzo settore, ci troviamo di fronte a una serie di differenze, che sembra utile richiamare in questa sede: linguaggio e tono di voce per il trattamento della tematica, anche quando si vuole sollecitare una risposta emotiva forte nei destinatati del messaggio, devono essere improntati a valori di non strumentalità, rispetto, accettazione

di Maria Cristina Antonucci e Elena Zanella

La recentissima campagna per la raccolta fondi realizzata da Parent Projet presenta una serie di elementi controversi su cui riteniamo sia opportuno svolgere alcune considerazioni, che speriamo possano essere di aiuto per la realtà direttamente coinvolta e per chi sia intenzionato a lavorare in futuro nella comunicazione sociale.

In primo luogo, si tratta di un caso in cui la comunicazione sociale sembra richiamare in modo acritico un’altra, già discutibile campagna commerciale. In quest’ultima pubblicità, riservata a una merendina confezionata, si assiste alla colazione di una famiglia felice standard, che condivide a colazione il prodotto da vendere e si confronta con un soggetto descritto macchiettisticamente come un complottista. Pur trattandosi di un annuncio commerciale del tutto fuori focus rispetto alla natura del prodotto da piazzare, essa manifesta la scusante della costante ricerca del clamore mediatico perseguita dal brand in questione; in un contesto di mercato, e nel caso specifico di mercato saturo, la strategia di cercare visibilità agganciandosi all’attualità rientra tra le opzioni disponibili. Quando però parliamo di comunicazione sociale, ossia di una comunicazione rivolta a costituire il motore del cambiamento culturale e sociale promosso da enti e soggetti di terzo settore, ci troviamo di fronte a una serie di differenze, che sembra utile richiamare in questa sede: linguaggio e tono di voce per il trattamento della tematica, anche quando si vuole sollecitare una risposta emotiva forte nei destinatati del messaggio, devono essere improntati a valori di non strumentalità, rispetto, accettazione. Una campagna raccolta fondi per una associazione di persone con disabilità non sembra affatto il contesto più indicato per superare le tradizionali barriere tra i due formati di pubblicità.

In secondo luogo, non convince affatto il paradigma scelto, che potremmo definire del paradosso del doppio stigma. Lungi dal poter anche solo pensare di comparare le due situazioni, presentate paradossalmente come “best” e “second best”, lo sguardo sulle persone con disabilità presentate nella campagna è oggettivante, e non di empowerment, in quanto volto a legare quei volti, protagonisti della campagna, alla condizione di disabilità e non alla circostanza che la disabilità sia solo uno dei tratti di quelle persone. Mettere su due piatti della bilancia persone ridotte ad etichette è un lavoro semplificativo molto scorretto in termini di umanità, in primo luogo e di comunicazione reificante, in seconda istanza. Fare questo significa vedere sempre le persone come mezzo, e mai come fine, espressione unica ed irripetibile dell’umanità nel mondo.

Infine, la campagna manca dello sguardo lungo che servirebbe a favorire continuità nel fundraising in modo convincente e di ampio respiro, basata su appartenenza e affidabilità nel senso stretto del termine, ovvero dell’affidare e dell’affidarsi. Abbiamo già avuto modo di argomentare in altra sede come disagio sociale e senso di insicurezza possano provocare effetti rilevanti e immediati sul dono, specie nel breve periodo. Di quest’analisi avremo riscontro, a conti fatti, nei prossimi mesi. Ma a conti fatti, sfruttare un tema di attualità oggi (come le posizioni di chi non può o non intende vaccinarsi, come consentito dalla legge) significa rincorrere trend e sentiment istantanei che renderanno la campagna vecchia nel giro di un tempo relativamente breve. E se questo è comprensibile nell’ottica della agenzia che ha realizzato questo prodotto di discutibile opportunità (e che ne dovrà realizzare un altro in tempi relativamente brevi), lo è meno per un’associazione che dovrebbe fare della continuità del piano di donazioni uno degli obiettivi della propria azione di comunicazione con il sistema esterno. Senza considerare che, una volta superate certe soglie di accettabilità sociale (e gli attacchi a una minoranza rientrano in pieno in questo approccio), non si comprende quali possano essere gli elementi successivi e ulteriori per continuare su questa stessa strada.

In altri termini, un ripensamento di questa comunicazione ci sembra urgente e importante per l’associazione in questione.


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