Solidarietà & Volontariato

Maternità surrogata: nomi di persone o nomi di cose?

La pandemia ha portato alla luce il volto che non si vuole vedere della maternità surrogata e che solitamente viene coperto dalla retorica delle categorie del dono, della generosità e dell’altruismo. Ma una pratica come quella della surrogacy finisce per mettere in crisi uno degli elementi portanti e decisivi del senso della nostra civiltà: la distinzione tra le persone e le cose. Perché a poter essere donate sono le cose, non le persone

di Alessio Musio

L’attenzione dei giornali di queste ultime settimane è stata colta da una vicenda drammatica e inquietante legata al bio-business della maternità surrogata, in cui la generazione dei figli assume connotati sempre più simili alla produzione di merci che possono essere ordinate à la carte, e a cui si può, eventualmente, anche rinunciare pagando una penale.

Si legge in uno dei primi articoli: «una bimba nata con maternità surrogata in Ucraina è stata abbandonata dalla coppia committente» e lasciata «come un oggetto in custodia a una babysitter» che l’ha curata sino al momento in cui, dopo aver «smesso di ricevere lo stipendio», ha deciso di affidarla «al consolato italiano. Con grande discrezione, la bambina è rientrata in Italia […], e sarà affidata a una famiglia che non la tratterà come una cosa, ma come una figlia» («Avvenire», 11 novembre).

Nel giro di poco tempo pressoché tutti quotidiani hanno parlato con accenti diversi della vicenda, concentrandosi, non di rado, sulla posizione di chi ne ha commissionato l’esistenza. Le parole della donna – «non me la sono sentita più, mi dispiace. Non la sentivo come mia figlia, mi dicevo: che c'entro io con lei? Non ce l'ho fatta» – sono state riprese, infatti, in molte ricostruzioni (vd. La mamma mancata di Luna, bimba abbandonata in Ucraina, «Repubblica», 13 Novembre).

Vuoto giuridico in Italia?

Così, alcuni giornali si sono interrogati sul vuoto giuridico che riguarderebbe situazioni di questo tipo, sorvolando con nonchalance sul fatto che una norma nel nostro Paese esiste in modo inequivocabile. La legge 40 all’art. 12, infatti, prescrive che «chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza (…) la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro» – tanto che sarebbe il caso di riflettere su questa strana prassi, in auge nel nostro Paese, di sostituire la legislazione vigente attraverso l’evocazione di presunti vuoti cui tribunali e sentenze porrebbero miracolosamente rimedio. Al di là del nomos, in ogni caso, il nostro compito è quello di riflettere sul significato profondo di una pratica come quella della surrogacy che finisce per mettere in crisi uno degli elementi portanti e decisivi del senso della nostra civiltà: la distinzione tra le persone e le cose.

Gli scenari di oggi, infatti, sono la conseguenza di una logica risultata evidente già durante il primo grande lockdown, quando un grande quantitativo di merci ha finito per essere escluso dai cicli di produzione o non ha potuto essere consegnato dopo essere stato prodotto, sulla base di una dinamica che ha riguardato anche alcuni bambini nati da madri surrogate proprio a Kiev: «le culle sono una accanto all’altra come in una sorta di catena di montaggio», riportava in proposito un articolo di giornale (Ucraina, 46 figli di madri surrogate ammassati in un hotel, «Corriere della Sera», 7 maggio 2020).

Così, la pandemia non ha fatto emergere un diverso volto della maternità surrogata, ma lo ha portato alla luce, mostrando ciò che tanta retorica e letteratura finge da sempre di non vedere, pretendendo di servirsi per nominarla delle categorie del dono, della generosità e dell’altruismo. Si tratta, perciò, di riflettere sul significato profondo di questi avvenimenti, a cominciare dal tema del mancato riconoscimento da parte della madre committente di una figlia che cambia, di volta in volta, di nome (di fantasia) in ogni articolo che la racconta.

La scissione del materno in tre figure femminili

La mancanza di riconoscimento, infatti, non è un elemento secondario perché, quando la tecnologia della fecondazione in vitro incontra la pratica della surrogacy, si assiste al fenomeno, mai accaduto nella storia dell’umanità, della scissione del materno in tre figure femminili: quella della madre genetica, colei che mette a disposizione l’ovocita, della madre gestazionale, colei che mette a disposizione il suo corpo per la gestazione e il parto, e della madre sociale, colei che, se di una donna effettivamente si tratta, si prenderà cura – o si dovrebbe prendere cura, come si è visto in questo caso – del bambino una volta nato.

Per continuare a leggere, vai su Vita e Pensiero.

*Alessio Musio è Professore Ordinario di Filosofia Morale presso l’Università Cattolica di Milano. Questo articolo è stato pubblicato su Vita e Pensiero, la rivista dell'Università Cattolica.


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