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Il Governo abbia il coraggio di intervenire su rendite e paradisi fiscali

Dialogo a tutto campo col presidente delle Acli Emiliano Manfredonia: "Sciopero strumento non più adeguato, ma il disagio sociale c'è ed è forte: se non si interviene le modo adeguato c'è il rischio di lasciare spazio a chi soffia sul fuoco della crescente rabbia sociale senza avere poi gli “estintori” giusti per spegnerlo"

di Redazione

Emiliano Manfredonia è il presidente delle Acli. La sua organizzazione a differenza di altri casi non ha aderito allo sciopero generale voluto da Cgil e Uil. Partiamo da qui.

Presidente al di là delle polemiche sul tasso di partecipazione, qual è il significato politico e sociale dello sciopero?

Forse lo sciopero non è stato lo strumento giusto per affrontare le questioni urgenti del paese ma stiamo attraversando un periodo straordinario in cui devono essere straordinari anche gli sforzi per cercare il dialogo e provare a costruire delle soluzioni. Noi siamo i primi a non essere contenti di alcune norme inserite nel decreto fiscale collegato al bilancio, come l’emendamento che obbliga anche gli enti non profit ad aprire una Partita Iva, un ulteriore aggravio per un settore già in difficoltà e che oltretutto deve fare i conti con i nuovi adempimenti previsti dalla Riforma del Terzo settore. Anche noi, attraverso il lavoro dei nostri servizi, tocchiamo con mano il malessere dei cittadini, il malcontento dei tanti senza lavoro, di quelli che un lavoro ce l’hanno ma è un lavoro povero, perché mal retribuito e poco garantito, un lavoro che invece di ungere di dignità l’uomo, come ci dice Papa Francesco, lo calpesta. Per questo è importante capire il disagio che altrimenti rischia di essere cavalcato da chi soffia sul fuoco della crescente rabbia sociale senza avere poi gli “estintori” giusti per spegnerlo.

Uno dei passaggi cruciali di questa fase politica è la riforma fiscale. Il dibattito sembra fossilizzato nello scontro ricchi vs poveri? Ma siamo sicuri che sia questo lo schema giusto oppure si dovrebbe allargare la riflessione a temi come la tassazione delle rendite o i paradisi fiscali, che sembrano non entrare nel raggio d'azione della politica?

In effetti c’è una pericolosa semplificazione che è figlia però delle modifiche che il fisco in Italia ha subito negli ultimi 40 anni, con uno schiacciamento verso il basso delle aliquote che di fatto ha interessato sempre di più la classe media e medio bassa favorendo quella ad alto reddito. Oggi credo che, con le nuove tecnologie, banche dati incrociate e strumenti di tracciamento digitale, sia possibile cucire un fisco “sartoriale”, davvero a misura per ogni individuo, calcolando le entrate e le uscite, sempre con il faro del dettame costituzionale secondo cui le tasse aumentano in proporzione ai guadagni. Per esempio è proprio giusto che le detrazioni siano usufruibili nella stessa percentuale da tutti? A questo va aggiunta qualche norma coraggiosa che tocchi le speculazioni sulle rendite finanziarie e che riesca a combattere realmente l’evasione fiscale. Solo così saremo in grado di abbassare le tasse sul lavoro e favorire il ceto medio basso.

Oltre all'uguaglianza la povertà è stato uno dei temi portanti delle manifestazioni. Come valuta la scelta del Governo di confermare il Reddito di Cittadinanza, senza però aver recepito alcun passaggio della relazione della commissione Saraceno? Così come si sta configurando il Rdc è uno strumento utile a contenere un trend che negli ultimi anni ha determinato un milione di poveri in più?

Il Reddito di cittadinanza è un valido strumento di contrasto alla povertà, tanto più necessario in questo tempo di pandemia, se consideriamo che eravamo tra i pochi paesi europei a non avere una misura del genere. Però non possiamo neanche dire che sia perfetto né tantomeno che sia la soluzione al problema della povertà e alla luce di ciò è incomprensibile la scelta da parte del Governo di ignorare completamente i suggerimenti della Commissione Saraceno e di non procedere ad un tagliando del Rdc. Lo abbiamo denunciato già da diversi mesi, bisogna correggere quanto prima due discriminazioni inaccettabili. La prima è quella che riguarda i cittadini stranieri che per accedere al beneficio devono essere residenti in Italia da 10 anni di cui almeno due continuativi; l’altra discriminazione riguarda le famiglie con più figli che percepiscono di meno in proporzione a chi ha un figlio solo o non ha figli. In secondo luogo va detto che manca completamente la visione della presa in carico delle persone; bisogna lavorare di più con i servizi sociali dei comuni e intervenire sul fronte delle politiche attive del lavoro, prevedendo attività formative finalizzate all'inserimento professionale. Occorre, in breve, legare il Reddito di cittadinanza a percorsi di formazione che possano poi aumentare le opportunità di lavoro. Infatti, un altro grande nodo su cui bisognerà intervenire, riguarda il collegamento con le politiche attive del lavoro, per tramite del Patto per il lavoro. Su questo fronte – ce lo ha ricordato anche il Ministro Orlando in un suo intervento qualche settimana fa alla nostra Conferenza dei Servizi – il Terzo Settore e le ACLI, in particolare, possono fare molto.

In un recente editoriale sul Corriere della Sera, Dario Di Vico scrive: «il soggetto che per quantità degli interventi e qualità delle motivazioni rappresenta la maggiore novità è il terzo settore, capace di coltivare la sua identità non giocando «a specchio» contro la politica ma intermediando il bisogno delle persone. Perché dedichiamo al mondo del non profit un centesimo dell’attenzione e degli approfondimenti che riserviamo a uno sciopero generale di vecchio conio?». Lei come risponderebbe a questa domanda?

Le buone notizie non fanno notizia, è quasi banale, ma profondamente vero. E poi c’è anche un’incapacità di raccontarsi da parte del Terzo settore, un’incapacità che non è una colpa perché, lo posso testimoniare venendo da quel mondo, spesso le associazioni di volontariato si reggono sugli sforzi di pochi individui che dedicano una vita intera per una causa più grande e raramente decidono di usare un bene così prezioso come il tempo per dire cosa fanno. E invece oggi, nella società dell’apparire, bisogna prima di tutto trovare dei canali e dei modi per far capire quanto bene fa il mondo del non profit, soprattutto quanto sia essenziale per arrivare a dare risposte concrete a tante fragilità che il nostro welfare state non è in grado di affrontare.

A suo parere l'Italia è pronta a cogliere l'opportunità del piano europeo per l'economia sociale?

Manca il vero coinvolgimento del Terzo settore, le amministrazioni non sanno di cosa si parla quando si dice coprogettazione o coprogrammazione, oppure non hanno il coraggio di coinvolgere questo mondo pensando di fare chissà quale concessione al Terzo settore ma poi non si preoccupano di controllare concessioni milionarie, come ad esempio nel caso di Autostrade. Questa è una triste realtà, nonostante gli obiettivi ambiziosi del PNRR. Ci sono alcuni punti ben orientati, specie sulle politiche attive, e in parte nella legge di bilancio, soprattutto dove si comincia a riparlare di livelli essenziali delle prestazioni, ma serve capire come, una volta finiti i fondi, si radicherà ovunque una infrastrutturazione sociale che sani tante profonde disparità, anche territoriali. Per esempio bisognerebbe investire sulla scuola, che oggi rischia di essere sempre più selettiva e ha perso la sua vocazione primaria di combattere le diseguaglianze, come è successo negli anni del boom economico. Ma bisogna investire più in generale sul nostro sistema di istruzione che significa anche implementare la formazione professionale, sconosciuta in tante regioni d’Italia, e prevedere anche una formazione permanente come strumento di garanzia per chi oggi lavora ma domani rischia di non lavorare più, in un mercato del lavoro in rapida evoluzione. Si tratta di cambiare paradigma, e credo che in questo senso dobbiamo trarre degli insegnamenti da questa pandemia, abbandonando un modello consumistico e impegnandoci per la produzione di beni a impatto ambientale zero e forieri di nuova occupazione, come la cultura, la storia, il patrimonio paesaggistico, la ricreazione e lo sport sociale, con la certezza che una nuova economia della cura farà crescere il paese perché cresce ogni persona.


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