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Dopo le RSA: se l’ideologia e la fretta partoriscono modelli fuori dalla realtà

Nel Pnrr ci sono 300 milioni di euro per la «riconversione delle RSA e Case di Riposo per gli anziani in gruppi appartamento autonomi». Pochi, per l'intero Paese. Ma soprattutto, qual è il modello che guida questa riconversione? Idealizzare la casa? Esistono già esperienze di appartamenti protetti, dentro un continuum di proposte che vanno dalla domiciliarità alla struttura residenziale: guardiamoli, altrimenti rischiamo di disegnare modelli che rispondono all’urgenza di allocare velocemente risorse ma che sono fuori dallo scenario operativo

di Virginio Brivio

Tra gli obiettivi che il PNRR pone nel settore degli anziani vi è una allocazione di risorse, assolutamente modeste, di 300 milioni di euro da destinare in tutto il Paese a «riconversione delle RSA e Case di Riposo per gli anziani in gruppi appartamento autonomi». Gli strumenti di programmazione in itinere poco aggiungono e anche se il dibattito pubblico sembra ridimensionarsi quanto a disfavore ideologico nei confronti della residenzialità (che, lo ricordiamo, ha fortemente condizionato l’impianto del PNRR) resta il dubbio relativo a cosa possano servire queste risorse.

Se si tratta di sperimentare riconversioni volontarie di RSA operanti in contesti particolari e già in cerca di nuove identità, occorre chiedersi se una certa tipologia di anziani sia poi effettivamente in grado di vivere in situazioni sicuramente più riconducibili a un contesto famigliare, ma magari non in grado di garantire risposte a bisogni sanitari specifici. A meno che non si tratti, invece, di mettere mano a ricoveri impropri o a RSA… improprie, cioè non rispettose dei parametri e degli standard di funzionamento. Quante volte, nella comunicazione pubblica, situazioni di degrado in servizi rivolti agli anziani sono state identificate come RSA e Case di riposo, quando si trattava invece di esercizi abusivi, se non illegali, di pseudo residenzialità! Queste situazioni andrebbero semplicemente chiuse, non certo aiutate a “riconvertirsi”, fermo restando la necessità di garantire una idonea risposta a coloro che, pur impropriamente, vi sono accolti.

Occorre quindi fare un’ulteriore riflessione, più di prospettiva, in merito a questa ipotesi di intervento del PNRR; riflessione che ci porta a evidenziare come quasi tutte le Regioni abbiano disciplinato, pur con terminologie diverse, l’ambito degli appartamenti protetti o delle comunità famigliari di accoglienza per anziani non autosufficienti. Se questi fondi andranno a rafforzare queste reti ben vengano, anche se a oggi non sappiamo se saranno attribuiti al Ministero delle Politiche sociali, e quindi afferenti ai piani di zona sociali dei Comuni, oppure al Ministero della Salute e quindi alle Regioni sul versante socio-sanitario.

Vorrei però proporre due osservazioni.

La prima. Sarebbe bene che la destinazione finale delle risorse fosse affidata alle Regioni, in modo che possano modellare nei propri bandi le assegnazioni su modelli coerenti con il sistema in atto sul territorio. Questo eviterebbe la nascita centralizzata, a livello statale, di una nuova unità d’offerta che rischia di non avere riscontro locale e, soprattutto, rafforzerebbe quel concetto di filiera dei servizi che vede non il contrapporsi di unità d’offerta, bensì un continuum che può essere una risposta temporanea e non assoluta in relazione ai bisogni in evoluzione degli anziani.

La seconda avvertenza, che vale tanto per gli alloggi famigliari quanto per le Case e ospedali di comunità, è la consapevolezza che il PNRR finanzia gli adeguamenti strutturali, compresi gli interventi di efficentamento energetico, digitalizzazione e domotica, ma non le spese di gestione corrente. Inoltre, queste unità d’offerta non sono solitamente accreditate con il Servizio sanitario, e al più le famiglie beneficiano di misure temporanee di buoni e voucher di emanazione regionale e dei piani di zona in relazione alle situazioni dei soggetti e all’intensità assistenziale richiesta; di conseguenza l’equilibrio gestionale non è semplice da trovare. Si tratta infatti di misure che spesso non sono sufficienti a coprire i costi delle prestazioni, soprattutto in un contesto di assistenza domiciliare integrata assolutamente da rafforzare in ogni parte del Paese.

In questo senso giova ricordare che esperienze concrete, promosse soprattutto da realtà del terzo settore (le più numerose nella rete complessiva), vedono spesso la presenza di queste unità d’offerta in spazi distinti ma prossimi a RSA, Centri Diurni e altri servizi: questo consente non solo possibili condivisioni e ottimizzazioni di risorse professionali, ma favorisce anche occasioni di flessibilità o di intervento nell’arco della giornata, o un’assistenza più adeguata per bisogni specifici di carattere temporale, senza sradicare l’anziano dal contesto di vita.

L’auspicio finale è che, prima delle decisioni formali tramite pubblicazione di bandi, si apra una riflessione che parta dall’ascolto non pregiudiziale di ciò che emerge nel vissuto e nell’esperienza sedimentata nella rete dei servizi, e i modelli non nascano dall’urgenza di allocare velocemente risorse, ma siano rispettosi di uno scenario operativo che esprimeva già qualcosa di buono prima della pandemia, e che resterà ben dopo il PNRR.

*Unità Innovazione Strategica – Fondazione Sacra Famiglia

Photo archivio Fondazione Sacra Famiglia


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