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I Patti educativi di comunità non diventino un “luogo comune”

Da Trento a Paternò, 15 esperienze di comunità educanti sono state analizzate per cercare di uscire dalla dimensione della sperimentazione infinita e arrivare a orientare le politiche pubbliche. «I Patti possano diventare “un luogo concreto e ideale” non solo per arginare processi di abbandono e fallimento formativo, ma anche per immaginare e dare sostegno a nuove modalità di educare e fare scuola»

di Sara De Carli

«Partendo dalle situazioni più fragili, i patti educativi di comunità diventino il luogo e il modo per ripensare il Paese intero»: così a inizio dicembre il Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi – che i patti educativi di comunità li aveva caldeggiati già nelle vesti di coordinatore del Comitato di esperti del ministro Azzolina – accoglieva la proposta avanza da Forum Disuguaglianze e Diversità per sostenere con il PNRR cento comunità educanti nei territori più fragili del Paese. «Interventi di spinta», li ha definiti, che potenzialmente potranno essere resi «strutturali nel tempo, per diventare una dinamica ordinaria del territorio».

Nel frattempo il Pnrr – sul versante scuola – si è concretizzato in quattro prime azioni, quattro classici bandi destinati agli enti locali che vanno a finanziare la costruzione di nuove scuole (800 milioni di euro, di cui il 40% destinata a candidature proposte da parte di enti locali appartenenti alle Regioni del Mezzogiorno, scadenza l’8 febbraio); la realizzazione di nuovi asili nido e scuole dell’infanzia o messa in sicurezza di strutture già esistenti (3 miliardi complessivi, di cui il 55,29% delle risorse per il potenziamento delle infrastrutture per la fascia di età 0-2 anni e il 40% delle risorse per il potenziamento delle infrastrutture per la fascia di età 3-5 anni sono destinati a comuni del Mezzogiorno, scadenza il 28 febbraio); la realizzazione di mense nelle scuole del primo ciclo per incentivare il tempo pieno (400 milioni di euro, di cui il 57,68% per progetti di enti locali del Mezzogiorno, scadenza il 28 febbraio); la costruzione o la messa in sicurezza di palestre scolastiche (300 milioni, di cui la metà per la messa in sicurezza e il 54,29% per gli enti locali delle Regioni del Mezzogiorno, scadenza il 28 febbraio). Di sostegno alle comunità educanti tramite il Pnrr, per il momento, non c’è traccia.

Scuola & Pnrr: non solo bandi

«Un punto che secondo noi va chiarito meglio è che non è vero che l'unico strumento per attivare processi di questo tipo sia il bando, perché nulla impedisce l'uso di forme come la co-progettazione o il bando misto di co-progettazione», annota Andrea Morniroli del Forum Uguaglianze Diversità. «Il punto è che non dobbiamo inventarci nulla, abbiamo già esperienze che dicono qual è il metodo: il metodo, attenzione, non il modello, perché non piuò esistere un modello che prendi e replichi in qualsiasi territorio. Esperienze che dicono innanzitutto cosa non sono i patti educativi di comunità e la comunità educante: non sono un sottrarre alla scuola la sua funzione educativa, ma un rapporto diverso tra scuola e territorio, con un nutrimento reciproco». Invalsi ha dato la disponibilità a ragionare su una griglia di indicatori di qualità per individuare le aree e per la misurazione dell'impatto sulla dispersione scolastica, ci sono risorse sia sul PNRR sia sui fondi strutturali dell'Unione europea «e se partisse una sperimentazione di questo tipo, con un'integrazione pubblico privato sia a monte sia a valle, immagino sia possibile anche un intreccio con il lavoro che sta facendo il Fondo di contrasto alla povertà educativa delle fondazioni bancarie, di cui l’impresa sociale Con i Bambini è soggetto attuatore», continua Morniroli.

Patti educativi territoriali: il rapporto

Il Gruppo Educazione del ForumDD ha messo sotto la lente 15 esperienze di patti educativi territoriali: patti che hanno già una certa “storia”, non “buone pratiche” né modelli ma esperienze appunto di cui comprendere anatomia, sostenibilità, impatto. Il rapporto, realizzato con il contributo di Fondazione Cariplo e Fondazione Paolo Bulgari, è stato curato da Daniela Luisi, Cristiana Mattioli e Alessia Zabatino. L’obiettivo? «I Patti possano diventare “un luogo concreto e ideale” non solo per arginare processi di abbandono e fallimento formativo, ma anche per immaginare e dare sostegno a nuove modalità di educare e fare scuola. Ma occorre evitare che il concetto di “Patto educativo” diventi un luogo comune, venga usato con superficialità e leggerezza o rischi di essere abusato e svuotato di senso, finendo per contenere tutto e il contrario di tutto: è già accaduto per altre parole», spiega Alessia Zabatino. Ecco quindi il senso del rapporto, da cui emerge però che «per evitare il rischio che quanto oggi si è fatto in tanti diversi contesti finisca per rimanere “sperimentazione infinita”, occorre una vera e propria inversione a “U” delle politiche pubbliche. Il tema educativo e la valorizzazione della scuola devono tornare ad essere una priorità delle politiche nazionali, con la promozione della co-progettazione territoriale e il superamento della logica dei finanziamenti a pioggia che producono interventi precari, confusi, sovrapposti, che poco servono alle ragazze e ai ragazzi».

Il patto e la trasformazione del contesto

«Non siamo andarti alla ricerca di modelli. Non ci interessa modellizzare il patto, individuare un modello standardizzato da replicare ma dalla eterogeneità delle esperienze trovare degli orientamenti che potessero informare le politiche pubbliche e degli enti erogatori. Dentro l’eterogeneità, trovare quel filo conduttore della collaborazione tra scuola e comunità educante per combattere i fattori che determinano le disuguaglianze educative che stanno dentro e fuori la scuola», sottolinea Zabatino. I patti sono o no strumenti che effettivamente migliorano i percorsi formativi? Molte esperienze hanno portato innovazioni didattiche dentro la scuola, innovazioni nate dalla compresenza tra educatori e insegnanti, innovazioni che restano perché gli insegnanti formati poi continuano a portare avanti un metodo didattico diverso, che comprende azioni di educativa di strada, doposcuola… Entrano in gioco modi diversi per riagganciare chi si sta perdendo, ma l’impatto è evidente. Ci sono anche miglioramenti nelle competenze sia disciplinari che non disciplinari. E poi c’è il tema importante dei cambiamenti di contesto», spiega Zabatino. È importante «perché nel momento in cui ci sono azioni di rigenerazione urbana, pratiche artistiche comunitarie che mettono insieme abitanti e scuola e famiglie, di service learning in cui i ragazzi individuano problematiche della comunità e il lavoro educativo consiste nel cercare soluzioni, di creazione di opportunità in contesti che ne sono privi, anche alternative alla criminalità organizzata… tutto questo porta una trasformazione del contesto che nasce dalle vive forze dei ragazzi stessi, i ragazzi stessi diventano agenti del cambiamento».

Per questo – prosegue Zabatino – «nelle raccomandazioni abbiamo scritto che sarebbe molto rilevante la presenza nei Patti degli EELL, perché il Patto non è solo questione di organizzazione ma di individuare le politiche educative territoriali, non può non esserci l’ente pubblico. L’ideale sarebbe che nel Patto si faccia una integrazione delle politiche educative, di quelle sociali, delle politiche attive del lavoro… la multifattorialità delle disuguaglianze educative ha necessità di essere affrontata con un intervento che agisce su target diversi e non solo su bambini e ragazzi. A Palermo per esempio nel patto informale Kalsamare c’è un’agenzia per il lavoro che fa un lavoro incredibile: non cambi la traiettoria di vita di un bambino se suo padre e sua madre stanno in condizione di disagio economico profondo. Anche le aziende giocano un ruolo importante: per esempio mostrando che esiste una buona impresa si rende evidente ai bambini che c’è un’alternativa possibile… Non stiamo parlando “solo” di politiche educative ma di politiche di sviluppo, politiche sociali, a volte anche di antimafia».

Nuove vie per la sostenibilità

Se vogliamo partire dalla sostenibilità economica, il rapporto mostra che i Patti si sostengono innanzitutto attraverso enti erogatori privati, con l’impresa sociale Con i Bambini che è il maggiore finanziatore. In pochissimi casi c’è un finanziamento pubblico, a cominciare dalle risorse stanziate dal Ministero dell’Istruzione l’estate 2020: «Risorse esigue in verità, poche migliaia di euro che non potevano sostenere un Patto». Soprattutto, dai Patti più “storici” è emersa «una critica molto forte alla dimensione del progetto, che non permette di dare continuità strutturale all’esperienza: non puoi pensare di far pagare servizi a persone che sono in condizione di disagio, quindi la continuità del Patto nel tempo, al di là della tempistica propria del progetto è importante, come pure la flessibilità necessaria per rispondere immediatamente nel momento in cui succede qualcosa che nel progetto non era previsto. Il turnover delle persone nella scuola, dirigenti e insegnanti, è un altro fattore che si è visto mettere a rischio la sopravvivenza del patto». Alcune esperienze, per diventare “ordinarie”, stanno cercando altre vie di finanziamento: «un dirigente sta pensando di usare i fondi per il diritto allo studio, altrove i Consultori, che erano partner di un progetto finanziato da Con i Bambini, dopo aver sperimentato questa attività nelle scuole e visto i risultati hanno deciso di finanziarla con i fondi che hanno per la promozione della salute, mentre alcuni sindaci stanno cercando di costituire un Fondo locale finanziato con i bilanci comunali per finanziare il Patto in via ordinaria e renderlo così un’esperienza stabile».

Ha collaborato Anna Spena. Nella foto di copertina, una delle attività realizzate dalla comunità educante nata grazie al progetto RAdiCi, in 17 comuni abruzzesi colpiti dal sisma del 2016. È uno delle 15 esperienze analizzate nel report del ForumDD.


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