Lo psicoterapeuta: troppe famiglie sole dopo adozione o affido

La denuncia dello specialista cagliaritano Michele Vargiu, segretario scientifico della Federazione nazionale per le comunità ad orientamento psicoanalitico - Fenacopsi, e supervisore di alcune comunità per minori. I buoni risultati ottenuti dal lavoro di gruppo della sua équipe, oggi allargati a tutta l'Italia grazie alle piattaforme online. Temi di cui si occupa Vita di Febbraio in edicola o in libreria

di Luigi Alfonso

«La pandemia ha rallentato enormemente le adozioni, soprattutto quelle internazionali, per svariati motivi: sanitari, economici e sociali. Dovremo tenerne conto nel prossimo futuro». Lo psicoterapeuta Michele Vargiu non appare allarmato, la sua è una constatazione che argomenta in pochi punti. «Purtroppo negli ultimi due anni è mancata la socializzazione, e con essa l’interazione con il mondo circostante che solitamente attiva il desiderio di molte coppie o famiglie di adottare un bambino», sottolinea Vargiu. «Restando a casa, ci siamo rinchiusi di più in noi stessi. Molte coppie hanno avuto un ripensamento, preferiscono puntare su un altro stile di vita. Questa esperienza richiede un grande senso di responsabilità. Molte coppie ci hanno detto di temere di essere un po’ abbandonate al loro destino».
Supervisore di alcune comunità sarde, tra cui quelle dell’associazione “Puntoacapo” e della cooperativa “Servizi Sociali” di Capoterra, Vargiu è il segretario scientifico della Fenacopsi, la Federazione nazionale per le comunità ad orientamento psicoanalitico. Lui traccia un quadro in chiaroscuro in materia di adozioni e affidi, il tema portante del numero di Vita Magazine in edicola o in libreria o acquistabile qui.

«Si è fatto certamente molto, per esempio rispetto alla tutela giuridica e sociale dei minori, la quale ovviamente continua anche nella fase successiva. Ciò che sinora è venuto a mancare è il dopo adozione o il post affido, mentre invece esiste un lavoro, anche importante, che viene fatto preventivamente. Le famiglie che si rivolgono a noi si trovano a che fare con un vuoto nel momento in cui arriva il figlio adottato o in affido. Teniamo presente che questi genitori devono scontrarsi con due fattori principali: uno è il lutto del bambino non nato naturalmente (le statistiche sono molto chiare, sotto questo profilo, ndr), l’altro è il lutto rispetto all’idea di una bambina o un bambino che sarebbe arrivato e che, spesso, non corrisponde ai loro desideri. Ciascun bambino ha il suo bagaglio di vissuto, e questo può creare grossi problemi. In definitiva, mancano i luoghi istituzionali deputati al confronto tra le famiglie adottive e affidatarie».

Qualcosa si muove nel settore privato. Ma non basta. «Da tre anni – spiega Vargiu – abbiamo avviato una sperimentazione con gruppi di ascolto che coinvolgono genitori adottivi o affidatari e anche figli adottati ormai adulti, che a loro volta stanno per adottare. I risultati non mancano. Questo strumento di confronto permette alle famiglie di capire che non sono sole. Le rispettive esperienze aiutano a superare più agevolmente certi ostacoli. La pandemia ci ha dato involontariamente una mano, costringendoci ad operare a distanza sulle piattaforme online: così siamo passati da una dimensione territoriale e regionale a quella nazionale. Nei gruppi si lavora con uno psicoterapeuta che assume la responsabilità della cura e della gestione delle conversazioni, non c’è un facilitatore perché non sono gruppi di auto-mutuo-aiuto. Una volta all’anno ci incontriamo di persona e stiamo insieme per tre giorni, coinvolgendo anche i figli adottati».

Accoglienza, integrazione, ritorno alle origini: sono i tre elementi cardine che si affrontano in questi gruppi. “Perché mi hanno abbandonato?”, è invece la domanda che un po’ tutti gli adottati si pongono. «Un gruppo deve essere una vera rete aperta», dice Vargiu. «Chi si rivolge a noi, presenta situazioni di grave criticità e sofferenza. Arrivano quando stanno già male. Sono persone che hanno un bisogno immediato di risposte. Noi cerchiamo di fornirle, però è indispensabile anche un intervento delle istituzioni, alla stregua di quanto accade prima di affidare un bambino a una nuova famiglia. Il lavoro di gruppo, peraltro, consente di risparmiare parecchie risorse finanziarie. Naturalmente occorrerebbe puntare sulla indispensabile formazione specifica degli operatori sul lavoro di gruppo. Bisogna investire sul post adozione, creare dei luoghi dove possa avvenire la presa in cura di adottandi e adottati, per lo meno sino a quando non supereranno certe criticità».

Gli incontri coordinati dal dottor Vargiu e dalla sua équipe, che coinvolge anche formatori, giudici onorari e assistenti sociali, sono mensili e a prezzi calmierati. «Ritengo che in questo periodo di grande emergenza sociale, chi può debba fare uno sforzo per aiutare le famiglie in difficoltà», commenta. «Serve anche per garantire i tempi lunghi della presa in cura, sino a quando tutti i familiari sono pronti per una nuova fase di vita. Non si può contare soltanto sul privato, occorre l’impegno diretto di istituzioni e territori, a cominciare dai quartieri. Oggi riemerge un concetto di Cristopher Lasch, e cioè che siamo sempre più ritirati in un “Io minimo” che non ci permette di protenderci verso l’altro. Le famiglie sono diventate delle Monadi, ognuna sta per conto suo, e la pandemia ha accentuato questo aspetto».
La stragrande maggioranza dei genitori adottivi vorrebbe avere un neonato o comunque un figlio molto piccolo, magari perché spera che i problemi siano minori. «È un equivoco non supportato da scientificità – sottolinea lo psicoterapeuta cagliaritano – perché non è vero che quei bimbi siano meno sofferenti. Esiste un mondo lacerato e dolorante anche prima della costruzione della memoria: ciò che avviene prima dei due anni e mezzo, è dentro di noi e non si può rinchiudere in un cassetto della mente. Eventuali maltrattamenti fisici e psicologici molto precoci vengono registrati dalla memoria somatosensoriale e rimangono nel corpo, che diventa il testimone di quell’esperienza. Di questo bisogna tenere conto».

Tra le proposte lanciate da Michele Vargiu in diverse occasioni, c’è una svolta auspicata da più parti ma contrastata da tanti addetti ai lavori. «Sono favorevole all’adozione di un bambino anche da parte di un single, che a volte può dare un surplus di amore rispetto a una coppia che non riesce ad esprimerlo. L’importante è la capacità di essere famiglia, per il bisogno grande di adozione che c’è. Ci sono dei single o anche delle coppie omosessuali in grado di fare questo. Tuttavia, è sempre necessario accostare a questo surplus di amore la presa in carico clinica che ogni coppia o single avrebbe diritto di avere. Al di là della morale. Il mio è un ragionamento clinico, non politico. Infine, va tanto di moda la resilienza, un concetto da abbandonare perché essa porta a essere stabili nel tempo. Dobbiamo accogliere un altro termine: re-esistenza, cioè resistere trasformandoci dopo la tempesta».