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Amore? No è il dramma della solitudine e dello stigma dell’Alzheimer

Francesca Arosio, psicologa e psicoterapeuta di Federazione Alzheimer commenta il caso dell’uomo che ha vissuto per quattro mesi con il cadavere dell’anziana compagna, malata di Alzheimer. «Il peso che vivono i familiari e i caregiver delle persone con demenza è grandissimo. Noi mettiamo in campo strumenti per fare rete e far comprendere che è una malattia di cui non vergognarsi, ma a volte non basta»

di Antonietta Nembri

“Solitudine e stigma”. Questi sono per Francesca Arosio, psicologa e psicoterapeuta della Federazione Alzheimer, il vero tema del dramma dietro un caso di cronaca romana. La storia è quella di un uomo che ha tenuto in casa il cadavere della compagna, morta quattro mesi fa. La donna novantenne e malata di Alzheimer da pochi anni, è stata avvolta come una mummia, l’uomo sessantaquattrenne dopo quindici anni di vita insieme non voleva separarsene. Come ha ben sintetizzato Michela Marzano su La Repubblica: «Parla d'amore l'uomo che ha tenuto in casa, per quattro mesi, il cadavere della compagna. Dice che, dopo quindici anni passati insieme, non poteva separarsi da lei…Mi viene da commentare semplicemente: "È matto". Poi però, riflettendo a tutte le volte in cui dietro la parola "amore" si celano il possesso, il controllo e la gelosia paranoica».

La psicologa al di là della cronaca riconosce una serie di tratti comuni a tanti familiari di persone con demenza, «la solitudine estrema che si legge tra le righe». E spiega: «Ne parlano gli studi, ne avevamo parlato in un recente Rapporto Adi (ne avevamo scritto qui ). Con la diagnosi di Alzheimer la rete amicale e familiare viene meno. Un paziente aveva raccontato: “Per me è stato un divorzio dagli amici”. Ma sono tante le testimonianze che ci arrivano dalla nostra help line “Pronto Alzheimer” (02.809767): familiari che non ce la fanno, non se la sentono, si sentono soli».

Quello che manca è la rete, continua Arosio «nel momento in cui si riceve la diagnosi sarebbe importante poter contare su persone che siano un sostegno. A volte il medico suggerisce di mettersi in contatto con le associazioni, altre invece non dice nulla e uno si ritrova a cercare informazioni in Internet. Servirebbe un percorso di maggior collaborazione tra tutti gli attori: medici, assistenti sociali, servizi e associazioni perché quando ci si trova da soli, non sempre è facile chiedere aiuto».

A bloccare le persone è spesso lo stigma che colpisce chi si ammala di demenza e di conseguenza anche il caregiver si sente solo: «Occorre abbattere lo stigma e non fermarsi al pensare di essere gli unici a vivere quella condizione perché ci sono altri che vivono la stessa situazione e parlare con loro aiuta, ci sono le associazioni che favoriscono i contatti e danno ascolto» continua Arosio. Che tornando sul caso romano si chiede «come quest’uomo abbia vissuto il decadimento cognitivo della compagna? Si tratta di un processo che va elaborato e da soli non ce la si fa. Per questo è importante non chiudersi e non rimanere soli».

La solitudine è un dramma dei nostri tempi, ma quando si parla di Alzheimer è spesso conseguenza del non avere chiesto aiuto, dell’aver pensato di potercela fare da soli: «Anche questa è una conseguenza della paura dello stigma che porta a pensare che l’Alzheimer non sia una malattia come le altre, come invece è. Lo ripeto, se non fai rete non ce la farai».

In apertura photo by Huy Phan on Unsplash


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