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Formazione in contesti di lavoro: perché abolirla sarebbe una sconfitta

C'è un problema serio nella cultura della sicurezza sul lavoro in Italia. Ma anche nella visione della scuola come luogo della Cultura, rigorosamente sganciata dal lavoro. L’alternanza va vista non solo come occasione di crescita tecnico professionale, ma come un dispositivo che intreccia studio, riflessione e lavoro

di Paolo Zuffinetti

È innegabile che la morte di due ragazzi impegnati in attività formative in azienda scuota nel profondo. C'è bisogno di salde redini di fronte all'improvvisa tragedia. La morte, soprattutto se coglie in giovane età, annichilisce chiunque. C'è un problema serio, diffuso nella cultura della sicurezza in Italia. È indispensabile che si inneschi un cambiamento radicale nella percezione del rischio e del pericolo che accompagna quotidianamente il lavoro. La tragedia dei due ragazzi è un dramma che richiama alla tutela ma anche e soprattutto al mandato educativo che come comunità adulta siamo chiamati ad esercitare. È un ruolo complesso quello dell'essere adulti significativi, sostanziato dall’accompagnare i giovani non solo nel quotidiano crescere ma che assume evidenza nella presenza responsiva nel dialogo che accompagna la criticità delle fasi di passaggio verso l’età adulta.

L'alternanza o meglio il PCTO è anticipazione e incarnazione di un momento di passaggio all’adultità, prima ancora che una modalità formativa, ben prima che l'occasione di accrescere le proprie competenze professionali. Un’opzione che contiene una quantità, piccola, minimizzabile e che deve essere minimizzata, ma ineludibile di pericolo. Una dimensione, quella del rischio, connaturata all’essenza stessa del processo evolutivo verso l’età adulta che può e deve essere accompagnata da uno sguardo adulto che possa facilitare la rilettura e la contestualizzazione.

La richiesta legittima non è quindi quella dell’abolizione delle esperienze formative in contesti aziendali, una rinuncia che non farebbe altro che privarli di uno spazio tutelato di crescita e confronto, quanto quella di sostanziarla in un intenzionale momento di confronto e crescita, occasione di uno sguardo riflessivo sul mondo incognito del lavoro e in fondo dell’essere adulti. Un luogo, quello dell’adultità, che abitiamo da persone e cittadini prima ancora che da educatori e di cui abbiamo imparato a cogliere, per primi, le contraddizioni, la bellezza e le bassezze.

La domanda forse sottesa alla rinuncia a questa opportunità formativa ha a che fare con il modello scolastico che immaginiamo, alla possibilità di interpretare la scuola come un sistema aperto ed in dialogo con una pluralità di luoghi e di soggetti che possano contribuire alla crescita ed allo sviluppo dei ragazzi. Un sistema che si percepisca così solido ed autorevole da poter abdicare alla sua preminenza di apprendimento per riconoscere che i luoghi del sapere, reali e virtuali, siano ormai molteplice fluidi, differiti nei tempi e negli spazi. Un dispositivo che sia in grado di reinterpretarsi in una dimensione maieutica, che colga l'opportunità di accompagnare allo sviluppo di capacità di riflessione e reinterpretazione della realtà nella sua stratificata complessità. L’alternanza può sostanziarsi non solo come occasione di crescita tecnico professionale, momento orientativo verso la prosecuzione degli studi o il mondo del lavoro, ma un complicato oggetto che può contenere, intrecciandole, tutte queste opportunità e che ben si presta ad innescare percorsi riflessivi e di autoapprendimento. Un dispositivo che deve essere teso a formare alla capacità di interpretazione dell’esperienza lavorativa, una modalità di apprendimento che accompagni lo sviluppo della capacità di lettura degli apprendimenti esperienziali e di riconnessione a percorsi di sviluppo e manutenzione professionale. Una disposizione formativa che avrebbe il merito di tentare la ricucitura della distanza tra cultura e lavoro in una “visione idealistica” della Cultura – con la C maiuscola – dove tutto ciò che ha a che fare con la pratica ed il lavoro operativo è ritenuto di “serie b o c” rispetto a tutto ciò che ha a che vedere con la teoria ed il lavoro intellettuale.

Una frattura paradossale in una Repubblica che richiama a fondamento della sua stessa sostanza l'idea di lavoro. Una visione che via via ha definito nella percezione comune una gerarchizzazione del sistema scolastico definendone il valore formativo anche a partire dalla distanza tra esperienza scolastica e inserimento lavorativo. E se fosse proprio nel ribaltamento di questo paradigma, quello cioè che studiare sia meglio che lavorare, lo sguardo necessario per immaginare un modo innovativo di ripensare i rapporti sociali? E se fosse proprio l'alternanza a rappresentare non l’occasionalità di un’esperienza formativa ma il modello stesso di un nuovo modo di lavorare? Un dispositivo in cui studio, riflessione e lavoro si intreccino nella tutela dei diritti individuali e nella manutenzione della propria professionalità. Una visione di società che non marginalizza in posizioni lavorative cristallizzate ma che assume come strutturale la possibilità in un continuo processo circolare l'opportunità di crescita e di sviluppo individuale. Un modello che da adulti abbiamo il dovere di immaginare, strutturare e accompagnare adempiendo in pieno al ruolo di formazione e garanzia verso i ragazzi che incontriamo. Abdicare a questo ruolo e ad un pensiero di prospettiva di ampio orizzonte significa non solo rinunciare a rispondere al mandato educativo ma ancora più a rinunciare a condividere un patto generazionale per immaginare un futuro per il Paese. Certo una delle possibili visioni.

*Paolo Zuffinetti è educatore professionale post 99 e formatore, si occupa del coordinamento di attività di formazione professionale di adolescenti e giovani

Foto Agenzia Sintesi


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