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Occupazioni, (ri)nascita di un movimento

Due anni di cattività domestica, docilità sociale da adeguamento alle regole Covid e privazione delle relazioni in classe sono stati la tempesta perfetta per creare fra gli studenti una coscienza politica e un’istanza di cambiamento, che ha preso corpo col gesto eclatante dell’occupazione. La lettura di Stefano Laffi

di Stefano Laffi

Li abbiamo visti, fuori dai loro licei occupati, nella coloratissima manifestazione di sabato, contro la guerra, contro tutte le guerre, solidali al popolo ucraino. Se i Fridays for Future hanno portato nel 2019 in piazza anche l’infanzia e la preadolescenza per difendere il pianeta, le occupazioni delle scuole superiori avvenute a febbraio 2022 hanno serrato i ranghi fra gli adolescenti, ne hanno fatto finalmente una voce politica.

«Era ovvio che lo facessimo», dicono. Due anni di cattività domestica, docilità sociale da adeguamento alle regole Covid e privazione delle relazioni in classe sono stati la tempesta perfetta per creare una coscienza politica e un’istanza di cambiamento, col gesto eclatante dell’occupazione. Chissà se i governi e il comitato tecnico scientifico avevano fatto una valutazione di impatto di quanto deciso sulla scuola, ma eccolo l’impatto.

Da adulti lo sappiamo che i giorni dell’occupazione sono fra i pochi di cui ci si ricorderà 20 anni dopo, a riprova di cosa lascia il segno di anni e anni vissuti fra quei banchi e di quanta ‘quotidianità irrilevante’ produca la routine scolastica.

Stefano Laffi

Erano pronti da due mesi, da dicembre, hanno atteso il momento giusto. I due studenti ‘morti sullo studio’ e l’annuncio da parte del Ministro della ‘maturità edizione 2022’ sono stati il casus belli, ma al centro c’è molto altro, basta leggere i loro documenti, che nascono da lunghe ore di assemblee, discussioni nei comitati. Chi si ricorda il discorso del 2021 delle tre neodiplomate della Scuola Normale di Pisa contro la loro stessa Università e contro il sistema di istruzione, conosce lo spessore di quelle critiche, cioè il prezioso lavoro di documentazione di quelle istanze: da quelle avrebbe dovuto ripartire il nuovo anno scolastico, la scuola non l’ha fatto, ci hanno pensato loro, studenti e studentesse. Chiedono una scuola non selettiva per classe sociale, non schiacciata su logiche competitive, non al servizio del mercato del lavoro, non ottusa nel perseguimento di un programma indifferente alla contemporaneità. Chiedono un ambiente sicuro, non precario, non affollato o che cade letteralmente a pezzi, come è successo ad un liceo milanese pochi giorni fa. Chiedono investimenti sull’istruzione, qualità dell’insegnamento, spazi di informazione e confronto sul presente. Chiedono di poter contare, scegliere e decidere, non essere solo ‘valutati’.

La scuola occupata è stata la rappresentazione di questa scuola possibile, è l’utopia realizzata e mostrata alla scuola stessa. ‘Che ci faccio io qui?’ è la madre di tutte le domande, come insegna il bellissimo racconto Niente di Janne Teller, in cui un ragazzo decide nel primo giorno di scuola di lasciare il banco per andarsene in cima ad un albero, denunciando l’inutilità di quella vita. La scuola superiore rischia l’ammutinamento silenzioso e collettivo, classi presenti solo coi corpi immobili ma assenti nell’animo, senza l’esercizio di alcuna passione, alcuna domanda, alcuna crescita personale, solo in attesa della campanella finale. La scuola occupata è tornata ad essere un luogo della felicità. Nel comunicato di fine occupazione del Liceo Carducci di Milano si legge: «hanno parlato (all’assemblea conclusiva) studenti che – essi stessi lo hanno detto – non avrebbero mai creduto di riuscire a parlare davanti a tante persone. Hanno affermato di essersi sentiti partecipi di qualcosa di speciale, di essere riusciti a vivere la scuola come non succedeva da tanto, di essere stati felici di venire a scuola come non capitava da troppo tempo. Speranza, ideali e senso di unione e appartenenza ci hanno fatto commuovere e persino piangere durante l’assemblea conclusiva».

Sono una rete diffusa in tante città, qualcosa di nuovo, che non coincide con sigle già esistenti. Non vogliono etichette, non hanno legami partitici. Hanno un’accurata organizzazione, si sono divisi i compiti, hanno momenti collettivi di presa di decisione. C’è parità di genere e di età, a differenza di quanto avveniva nella generazione dei loro genitori le occupazioni non hanno affatto visto impegnati solo i più grandi e fra le voci pubbliche le ragazze erano almeno la metà. Dopo le occupazioni vogliono consolidarsi, crescere come movimento, per questo hanno deciso di aderire e partecipare alla manifestazione contro la guerra in Ucraina: per loro anche quella è scuola

Stefano Laffi

Da adulti lo sappiamo che i giorni dell’occupazione sono fra i pochi di cui ci si ricorderà 20 anni dopo, a riprova di cosa lascia il segno di anni e anni vissuti fra quei banchi e di quanta ‘quotidianità irrilevante’ produca la routine scolastica. Quante volte con la mente ci è capitato di salire su quell’albero per il senso di estraneità sentito in classe? E invece «durante questi sei giorni di libertà abbiamo cantato, ballato e giocato per riappropriarci di quella socialità che ci era stata tolta, abbiamo partecipato a lezioni e dibattiti su ciò che ci interessava alla ricerca di quel piacere per l’apprendimento libero dal voto, abbiamo provato a parlare di politica, abbiamo discusso in assemblee i motivi e le speranze che ci avevano portato ad occupare e siamo così riusciti a sentirci davvero parte di una grande comunità scolastica».

Mi sono chiesto come avessero fatto ad occupare, non avendolo mai visto fare, perché nella mia generazione era il classico apprendimento trasmesso dai fratelli maggiori. Semplice, sono persone serie, hanno studiato per mesi, si sono documentati, hanno capito come funziona la scuola quando loro non ci sono, hanno curato tutti i dettagli cercando di organizzarsi al meglio, hanno occupato quando era il momento opportuno. E hanno improvvisato laddove accadeva l’imprevisto. Sono ribelli autodidatti, ma hanno risorse e capacità di cui abbiamo visto l’efficacia in questi giorni. E una coscienza che molti non si attendevano: “perché non fate la cogestione?", chiedevano i loro professori – ovvero quella sorta di scuola alternativa di 3 giorni decisa insieme a docenti e dirigenti, abituale in questi anni – e loro hanno risposto che quella non aveva valenza politica, non era espressione di un conflitto e di un cambiamento che loro sentono.

L’occupazione è illegale, l’istituzione fatica a dialogarci, a capire come stare in questo conflitto. Si mostra comprensiva, apre al dialogo con brevi audizioni di delegazioni di studenti (non occupanti), ma poi non riesce a produrre cambiamenti significativi al suo interno. Si mostra concessiva, ma finisce nel paternalismo quando offre solo sportelli di ascolto e ore di terapia per il malessere indotto, mentre gli studenti rivendicano anche la dimensione politica, quella del cambiamento della realtà, perché la cura è sempre un atto intempestivo se chi la offre è la causa. Si mostra a volte solidale, quando si mette a fianco agli studenti, anziché restare di fronte e tenere il dialogo per mettersi in discussione, si fa complice al momento, si dice vittima lei stessa di regole troppo burocratiche, salvo poi non ribellarsi mai, fare parte di quella ‘banalità del male’ che è all’origine del ‘problema scuola’, dove forse tutti fanno il proprio dovere ma il risultato è questo senso di infelicità.

I ragazzi e le ragazze però vanno avanti. Sono una rete diffusa in tante città, qualcosa di nuovo, che non coincide con sigle già esistenti. Non vogliono etichette, non hanno legami partitici. Hanno un’accurata organizzazione, si sono divisi i compiti, hanno momenti collettivi di presa di decisione. C’è parità di genere e di età, a differenza di quanto avveniva nella generazione dei loro genitori le occupazioni non hanno affatto visto impegnati solo i più grandi e fra le voci pubbliche le ragazze erano almeno la metà. Dopo le occupazioni vogliono consolidarsi, crescere come movimento, per questo hanno deciso di aderire e partecipare alla manifestazione contro la guerra in Ucraina: per loro anche quella è scuola, partecipare al proprio tempo. Sanno di non essere ovunque, non essere ancora espressione di un dissenso capillare: la mappa delle occupazioni svela differenze nelle consapevolezze e negli interessi, le scuole professionali e gli istituti tecnici spesso mancano all’appello, per esempio ci sono a Roma ma non a Milano. Non è un caso che quell’atto di accusa all’istruzione in Italia così affilato venisse da chi aveva studiato alla Normale di Pisa: è la cultura che produce gli antidoti al sistema. Ma appunto questi studenti lo sanno, stanno lavorando per diffondere la consapevolezza, scommettono di parlare anche per chi non si è mosso: non vogliono migliorare il proprio liceo ma vogliono cambiare la scuola. Di tutti.

*A cura di Stefano Laffi, ricercatore sociale di Codici, in dialogo con Samuele Carazzina, del liceo Carducci di Milano. Foto Sintesi


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