Cooperazione & Relazioni internazionali

Qui Przemyśl, fra i profughi in fuga sul confine polacco

Nella stazione ferroviaria donne, anziani e bambini che scappano. E tanti volontari. Dalla Polonia è passato un milione e mezzo dei due milioni di ucraini fuggiti dalle bombe e dai missili russi. Ognuno con le sue paure, ognuno con le sue speranze. Li abbiamo incontrati

di Anna Spena

I confini sono la fotografia della guerra, un’altra faccia dove non si vedono le armi.
Olga ha 26 anni e gli occhi chiari. Azzurri, come il colore dello zainetto che è riuscita a portarsi dietro. Lo tiene poggiato su una sedia di legno davanti a lei. lo tiene così per occupare il posto alla madre che è andata in bagno. È rannicchiata con la schiena curva e un cappellino di lana le copre mezza viso. Ma si intravedono le ciocche di capelli neri che le lasciano scoperte le guance pallide.
Lo guarda ipnotizzata quello zaino, sembra voglia fissare un punto per rimanere con la mente qui. Qui è Przemyśl Główny, una stazione ferroviaria al confine con l’Ucraina. «Mio padre è rimasto a Dnipro a combattere», dice.

Il padre di Olga è rimasto in Ucraina come la stragrande maggioranza degli uomini: loro non si vedono in questa immagine di guerra al di là del confine, però si sentono lo stesso, una presenza forte che ha la forma della mancanza.

Alla stazione di Przemysl la guerra ha più di tutto la faccia dei bambini e quella degli anziani. E odora di corpi ammassati. I bambini messi in salvo dalle madri, per loro scappare significa la possibilità di una vita nuova, hanno dalla loro parte il tempo. Agli antipodi gli anziani, loro no, il tempo per una vita nuova forse non ce l’hanno. E se ne stanno li, con la loro disperazione composta per colpa di un’altra guerra insensata che ha già fatto oltre due milioni e mezzo di profughi, più di un milione e mezzo è passato dalla Polonia.
Una guerra che ha la faccia di Alina, Ania e Katia. Due sorelle con la loro madre. Nessuno parla inglese. Ania ha 13 anni, dice: «Solo ucraino e russo». Su russo si ferma, fa una smorfia a metà tra il beffardo e il rassegnato con la faccia. Per raccontarsi si aiuta con il traduttore: «Siamo arrivate da Dnipro. Vogliamo andare a Praga, vogliamo vivere sicure. Siamo stanche, ma quando abbiamo passato il confine la paura è sparita».

Abbiamo scritto all’inizio che i confini sono la fotografia della guerra, un’altra faccia dove non si vedono le armi. Ma i confini, quando sono aperti (e dovrebbero esserlo sempre), sono anche la fotografia dell’accoglienza. E così in questa immagine piena dove il tempo rimane sospeso, come le vite di chi lo sta abitando, entrano le mani che passano piatti, accarezzano volti, preparano i pacchi con i beni essenziali, indicano altri treni per andare più lontano, aiutano a salire sui bus che poi porteranno le persone negli alloggi temporanei. La stazione di Przemysl è piena non solo di rifugiati ma anche di volontari: Caritas tra tutte ma anche la polizia locale, i vigili del fuoco, i singoli cittadini. Nessuno si è tirato indietro. «C’è tanta gente che sta aiutando», dice Natalia, volontaria della Caritas polacca, ha 23 anni. «Tante gente di buon cuore, e questo è bello».


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