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Economia & Impresa sociale 

La sfida del lavoro per i profughi ucraini

Irina è arrivata da una settimana a Roma e ha già fatto una prova di due giorni come parrucchiera. Yulia è già stata in Italia, lavorava negli alberghi: ora per il suo italiano perfetto e la sua conoscenza della città, vorrebbero proporle di lavorare come mediatrice. Sono i primi passi della cooperativa sociale Men at work di Roma per affrontare un altro grande capitolo dell'accoglienza, quello del lavoro. Con il pensiero fisso, però, di tornare a casa il prima possibile

di Barbara Polidori

Ricominciare è difficile per chi sconta la guerra sulla propria pelle e deve esorcizzarne il peso dall’altra parte del mondo. Migliaia di profughi ucraini stanno arrivando in queste ore in Italia e per loro il percorso di accoglienza non si esaurisce in un posto letto, un pasto caldo e un tetto solido sopra la testa.

Lontane dalla patria e in città semi-sconosciute, Yulia, Irina e Anna sono fuggite con i figli dall’Ucraina e arrivate nella Capitale con i rumori delle sirene e l’immagine degli obiettivi militari ancora vivide nella memoria. La solidarietà ha fornito loro un rifugio, ma non basta, perché lo scenario successivo è come sopravvivere in un paese straniero, senza documenti e senza conoscere minimamente la lingua.

Il riscatto arriva tramite i progetti di integrazione sociale e nel raggiungimento di un’indipendenza economica su cui stanno lavorando tantissime realtà del Terzo Settore, soprattutto a Roma, dove si trova la comunità ucraina più numerosa in Italia, 14mila persone (dati Istat) prima dell’esodo del conflitto.

Il riscatto del lavoro con Men at Work

In queste settimane la Capitale si è preparata ad accogliere 10mila persone, come annunciato per dall'assessora capitolina alle Politiche sociali, Barbara Funari. A questo dato, si aggiungeranno anche le sistemazioni offerte dalle strutture della rete CAS e SAI e la solidarietà delle tantissime famiglie romane che hanno aperto le porte di casa propria per i profughi ucraini, oltre 300 in pochissimi giorni secondo l’Assessorato del Campidoglio.

Parte di questo lavoro di accoglienza e integrazione è rappresentato Men at work, cooperativa sociale nata a Roma nel 1998 e rivolta alle fasce più svantaggiate della popolazione, come le ex detenute, con percorsi specifici per l’inserimento sociale e professionale. Una parte della cooperativa, Area Sociale, realizza dal 2009 progetti per la disabilità e ha a disposizione delle stanze per la prima accoglienza a Manzoni, ma i gestori non potevano minimamente immaginare il loro contributo durante questo periodo storico.

«Avevamo la certezza che la nostra struttura a marzo non avrebbe accolto nessuno, i processi sono molto lunghi», spiega Luciano Pantarotto, presidente di Men at Work. Il conflitto ha cambiato tutto. «La Parrocchia di Sant’Antonio e Annibale di Francia ci ha comunicato l’arrivo di tre profughe e ci siamo attivati subito per mettere a disposizione il nostro spazio e inserire i bambini nell’istituto comprensivo Guicciardini», prosegue. «In questo momento Confcooperative Roma sta studiando un accordo con le agenzie interinali per agevolare anche il percorso di inserimento lavorativo dei profughi ucraini», spiega Maria Cantarelli, fondatrice di Area sociale. «Stiamo aiutando le tre profughe a trovare lavoro qui a Roma sulla base delle loro competenze, interagendo con privati, esercizi commerciali e aiutandole con i colloqui lavorativi. Irina è arrivata da una settimana e ha già fatto una prova di due giorni come parrucchiera. È un primo passo per aiutarle a ricominciare, per quanto possibile».

Stiamo aiutando le tre profughe a trovare lavoro qui a Roma sulla base delle loro competenze, interagendo con privati, esercizi commerciali e aiutandole con i colloqui lavorativi. Irina è arrivata da una settimana e ha già fatto una prova di due giorni come parrucchiera. È un primo passo per aiutarle a ricominciare, per quanto possibile

Maria Cantarelli, fondatrice di Area sociale

Yulia, invece, originaria di Leopoli, fatica a credere non tanto di essere scampata a una guerra, ma di tornare in un Paese diverso da come lo ricordava. «Ho vissuto 10 anni in Italia giustificando la mia voglia di lavorare, per questo poi sono tornata in Ucraina… La vita mi ha riportata di nuovo qui e adesso gli italiani ci guardano con occhi diversi». Ha lavorato a lungo negli alberghi e ha un italiano impeccabile: vista la sua conoscenza della lingua e della città, Men at Work sta cercando di indirizzarla anche come mediatrice culturale, per fare da interprete ai tanti profughi arrivati in queste settimane.

Un’Ucraina diversa ma unica

Tre donne, tre storie, un’unica Ucraina riunita intorno a un tavolo, nonostante le differenze culturali, le tradizioni e i vissuti. Yulia, Irina e Anna si sono ritrovate coinquiline nel rifugio di viale Manzoni che tra compiti e cartoni animati sa già un po’ di casa, sebbene condivisa, come la nostalgia per il loro Paese. «Ci hanno detto che vogliono stare insieme, anche se i due nuclei si conoscono a malapena», spiega Maria Cantarelli.

Yulia e Irina sono sorelle, originarie di Leopoli, la prima ha lavorato come cameriera e governante nei grandi alberghi a Salerno, poi a Roma, fino a quando nel 2016 ha avuto il suo primo figlio, Sasha. La seconda è parrucchiera.

Il padre di mio figlio diceva che si sentiva russo pur essendo di Donetsk, secondo lui nella nostra famiglia c’erano due Ucraina e la cosa non andava bene. Perché? Anche io sono metà russa!

Yulia, profuga da Leopoli

Yulia ha battezzato il figlio proprio a Roma, nella Parrocchia di Santa Sofia dove stanno raccogliendo da settimane aiuti per l’Ucraina. «Vivere in Italia era diventato troppo difficile per me, ero sola e volevo dare un futuro dignitoso a Sasha, perciò sono tornata in Ucraina quando aveva 3 anni, ma non ho mai voluto allontanarlo da questo Paese, che è un po’ anche il suo. Abbiamo programmato anche delle vacanze a Roma, strano come il destino ci abbia riportato qui prima del tempo», racconta Yulia. «A Leopoli lavoravo come amministratrice di un’area di un albergo di lusso, ho incontrato gente da tutto il mondo per il mio lavoro e noi ucraini ci sentiamo molto vicini all’Europa, siamo aperti al dialogo e alla globalizzazione, ma questo a molti russi non piace e preferiscono rimanere ancorati al passato. Il padre di mio figlio diceva che si sentiva russo pur essendo di Donetsk, secondo lui nella nostra famiglia c’erano due Ucraina e la cosa non andava bene. Perché? Anche io sono metà russa!». Molte famiglie ucraine condividono origini miste. Anche Yulia e Irina hanno padre russo e madre ucraina. I nonni sono ancora in Ucraina, a cucinare alle milizie o sistemare i bunker dove per giorni tutta la famiglia si è rifugiata. «Abbiamo passato gli ultimi momenti insieme staccando i target adesivi che i russi hanno affisso sui pali della luce o sulle centraline elettriche dei palazzi, si preparavano almeno da un anno a tutto questo», raccontano le due donne. «Le notti invece le abbiamo passate con lo sguardo fisso sulle chat con gli aggiornamenti sugli attacchi aerei. Mentre vestivamo i bambini, in piena notte e cercando di farli scendere per le scale, dicevamo loro che era tutto un gioco, che vinceva chi arrivava prima nel bunker. Sono i bambini che soffriranno di più tutto questo», spiega Yulia.

Irina, più giovane della sorella, è invece una parrucchiera e si è appena resa disponibile presso un negozio in zona Esquilino. «Ho tagliato persino i capelli all’ex presidente, Porošenko, ma ero talmente emozionata che non capivo niente», ricorda sorridendo alla parola “presidente”. «Devo trovare un lavoro che mi permetta di aiutare mia figlia a fare i compiti, sono tanti eh». Anche in un’altra lingua, ovviamente.

Anna invece, la terza donna, è originaria del Donbass, la terra più contesa dalle mire espansionistiche russe in questi 8 anni. Se per Putin le differenze tra comunità ucraina e russofona sono incolmabili, per le tre donne è questione di abitudine. «Intorno a questo tavolo stiamo condividendo ricette, usi e costumi. Siamo tutte mamme, donne, non ci sono nazionalità né razze o differenze: siamo un’unica Ucraina», spiega Yulia.

Cercherò un lavoro, farò qualsiasi cosa per non dare disturbo, ma voglio essere chiara: tornerò in Ucraina, anche se non so se troverò più casa mia

Anna, profuga da Pavlohrad, nel Donbass

Lavorare in Italia, sognando l’Ucraina

Anna arriva da Pavlohrad, nel Donbass, da una delle regioni più povere dell’Ucraina, dove lavorava come redattrice per il giornale Zahidny Donbass. Il giornale ora però non esiste più: «Abbiamo deciso di chiudere definitivamente al quinto giorno di guerra», spiega Anna, ma il suo ultimo giorno di lavoro se lo ricorda bene. «Stavo vestendo mio figlio prima di andare in redazione, mi sono sporta alla finestra e ho sentito uno sfrigolio velocissimo, poi un altro e un altro ancora», racconta. «Ho chiamato mia figlia che è poliziotta ed è ancora lì, per chiederle spiegazioni, pensavo di essere impazzita e invece no: gli aerei russi sfrecciavano sopra casa nostra. Ormai quando chiamo mia figlia, non le nominiamo nemmeno più le bombe, fanno parte della nostra quotidianità. Diciamo semplicemente ‘è caduta’, anche per evitare che le conversazioni siano identificate tramite le città».

Anna si è salvata perché è scappata in campagna, dove è rimasta per giorni. Suo marito è in Ucraina, combatte per il Paese, mentre lei e il figlio Ivan si sono imbarcati sul primo treno in partenza dalla stazione di Leopoli, con loro almeno 8mila persone ad attendere. «Ci sono volute almeno 12 ore prima di riuscire a salire sul primo treno per il confine con la Polonia, perché quello precedente era stato bombardato», racconta Anna. «Di quelle 8mila persone in attesa alla stazione di Leopoli, ne sono salite sul treno 2.500, che hanno viaggiato stipate a bordo per 24 ore. Se c’è un inferno in terra, quel treno viaggiava sicuramente al di sotto. Sono grata di essere salva e ringrazio gli italiani di avermi dato una seconda possibilità e non avermi menato».

Le chiedo perché mai dovremmo avercela con lei, se ritiene che gli Ucraini siano nazisti come dice Putin, risponde così: «Ho pianto quando hanno invaso la Crimea, nessuno di noi vorrebbe quello che sta succedendo e sono grata all’Italia per avermi accolta nonostante quello che pensino di molti ucraini. Cercherò un lavoro, farò qualsiasi cosa per non dare disturbo, ma voglio essere chiara: tornerò in Ucraina, anche se non so se troverò più casa mia».


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