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Remuzzi: spero che i volontari facciano scoccare una nuova scintilla tra la gente

Riproponiamo uno degli interventi più interessanti emersi durante il convegno “Il volontariato che cambia la sanità. Il tempo della relazione è tempo di cura”, che si è tenuto a Bergamo in occasione dell'investitura ufficiale di Bergamo Capitale italiana del volontariato 2022. Giuseppe Remuzzi, direttore dell'Istituto "Mario Negri" di Milano, parla degli effetti sanitari e sociali della pandemia e dell'importanza delle realtà del Terzo settore

di Giuseppe Remuzzi

Ad un certo punto nel 2020, verso febbraio, è arrivato improvvisamente un virus, chissà da dove, e ha interessato tutto il mondo. Hanno detto tutti che era un virus nuovo. In realtà, se lo guardate, è un virus che c’era 20mila anni fa: si è diffuso in Cina, è rimasto lì perché ovviamente allora non c’erano gli aerei, ma ha fatto morire tante persone. Questo, invece, che è arrivato da noi nel febbraio 2020 (così dicono: in verità io credo che fosse da noi già molto tempo prima, probabilmente da novembre) è partito dalla provincia di Hubei, dai mercati umidi che sono qualcosa di terribile, con gli animali vivi ammassati uno sopra l’altro, tra gli escrementi. Qualcuno ha parlato del laboratorio di Wuhan. La prima che si è infettata è una pescivendola: questo succedeva l’11 dicembre, figuriamoci da quanto girasse il virus. Proviene dai pipistrelli, come tanti altri virus. Il problema è che la provincia di Hubei, e Wuhan in particolare, è collegata in maniera impressionante con tutti gli aeroporti, compreso quello di Orio al Serio, in Italia. Quindi in pochissimo tempo, al contrario di ciò che era successo 20mila anni fa, il virus si è diffuso in tutto il mondo. Il 24 gennaio 2020, sulla rivista “Lancet”, è stato pubblicato un articolo molto importante; un gruppo di ricercatori cinesi spiega tutto: che c’era una sindrome respiratoria acuta dovuta a un coronavirus, che richiedeva intervento di terapia intensiva ed era associato ad alta mortalità. C’era scritto tutto. Bastava leggerlo. La reazione del mondo occidentale, per lo meno di quelli che lo hanno letto, è stata: ma possiamo davvero credere a quello che dicono? Sono davvero in grado di gestire questi pazienti, i cinesi? Se noi avessimo creduto a quel lavoro e l’avessimo letto, ci saremmo chiesti: abbiamo i dispositivi di protezione individuale? Come possiamo gestire il distanziamento? Qual è la politica delle scuole? Come possiamo fermare la trasmissione del virus? Tutto questo avremmo potuto farlo in 48-72 ore. Non è stato fatto e la colpa è nostra, della comunità scientifica: non solo di quella italiana ma anche di quella europea e degli Stati Uniti, che è la più forte del mondo.

Sino a quel momento, in Italia, non c’era stato un caso di coronavirus come quelli che abbiamo visto. Non c’erano protocolli. L’Organizzazione mondiale della sanità diceva di testare solo le persone che provenivano dalla Cina. Però il virus è già da noi da tempo, e non lo sapevamo. Così l’ospedale, anziché identificare e trattare la malattia, è diventato un modo per accelerare la diffusione della malattia stessa. Quello che ci è arrivato addosso va letto attraverso la storia, l’economia, la globalizzazione, con un’attenzione particolare alla società in cui viviamo.

La Cina ha lavorato bene nel contenere l’epidemia a Wuhan, ma non è bastato. Se in Cina chiunque potesse esprimere le proprie opinioni e ci fosse la libertà di parola e di stampa, questa crisi si sarebbe fermata prima. Se le idee non possono circolare, la gente non ha punti di riferimento, non riesce a orientarsi, e alla fine si attribuisce all’epidemia, e poi alla pandemia, chissà quale significato recondito. E invece è successo e basta, ragioni profonde non ce ne sono.

Dobbiamo distinguere la politica dalla scienza. Gli scienziati e i medici cinesi sono formidabili. Chissà che il Coronavirus non possa essere l’occasione per inventare qualcosa per cui lo Stato abbandoni i meccanismi legati al mercato e promuova la cooperazione in tutti i campi ma soprattutto nel più delicato, quello della salute dei cittadini, e che sappia includere le tante forme di volontariato che ci hanno aiutato a superare questo periodo.

Ho sempre suggerito ai miei colleghi in ospedale di considerare ogni malato nuovo che arriva come una cosa bella, entusiasmante, come un fatto per cui devi capire una cosa che ti trovi di fronte. Ma quando sei stanco e non ce la fai più, tu vorresti che di malati non ne arrivassero più. Questa è una cosa che, se non hai provato, è difficile da capire. E poi si finisce col fare le cose male. Però i servizi pubblici devono continuare a funzionare, Covid o non Covid. L’elettricità, l’acqua, il cibo, le medicine devono essere disponibili comunque, e allora si scopre la funzione del pubblico servizio – che è stato formidabile – e il ruolo essenziale del volontariato, che questi servizi di fatto li hanno assicurati spontaneamente. Sono i volontari che hanno consentito a Bergamo di andare avanti in quel periodo difficile.

Con la scusa del Coronavirus abbiamo trascurato o ritardato altri trattamenti considerati non urgenti, che però alla lunga avranno un impatto sulla nostra salute molto più grave del Covid-19 (73 milioni di diagnosi in meno). Non possiamo fare a meno di riflettere sul fatto che, nel giro di pochi anni, i cambiamenti climatici e la povertà uccideranno molte più persone di quanto abbia o avrà fatto il Coronavirus.

C’è il rischio che, per salvare l’umanità da uno dei tanti virus, si rischi di creare uomini disponibili a sacrificare praticamente tutto delle loro attività: lavoro, affetti, religione, convinzioni politiche, ideali, di fronte al pericolo di ammalarsi. Ma non potrà esserci salute e benessere per ciascuno di noi se non ci prendiamo cura della salute degli altri uomini e degli altri esseri viventi, incluse le piante. Se ne esce solo con una forma di solidarietà globale e di attenzione alla natura, a cui fino a poco tempo fa una élite di intellettuali aveva prestato attenzione, ma che d’ora in poi dovrà coinvolgere tutti. E qui il volontariato deve giocare un ruolo fondamentale, perché è quello che facciamo noi tutti i giorni che salva l’ambiente, non le leggi. Anche, ma non soltanto. La crisi potrebbe sfociare in una nuova forma di egoismo: vivere o morire potrebbe dipendere dalla classe sociale a cui appartieni, si lasceranno sole le persone fragili, salvo che ancora una volta il volontariato faccia scoccare una scintilla tra la gente e i governi per evitare la barbarie del peggior capitalismo, a vantaggio di pochi e a scapito dei più fragili.

*direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri”

Tratto dall’intervento al convegno

ll volontariato che cambia la sanità. Il tempo della relazione è tempo di cura, (Bergamo, 19 febbraio 2022)

a cura di Luigi Alfonso


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