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Come riformulare le comunità mamma-bambino? La ricerca di Arché

La ricerca, promossa dal Centro Studi di Fondazione Arché in collaborazione con l’Università Cattolica di Milano, punta a ripensare le comunità di accoglienza per mamme e bambino, affinché diventino non solo luoghi dove si riparano gli errori del passato, ma anche luoghi dove si genera un futuro migliore e pieno di speranza per le mamme e i loro figli e figlie. «Dalla comunità riparativa alla comunità generativa» è appunto il titolo

di Sabina Pignataro

Che funzione svolgono oggi le comunità mamma bambino? Da questa domanda, tutt’altro che banale, è partita un’importante riflessione all’interno di Fondazione Arché. «Avevamo la sensazione ci fosse alla base una forte dicotomia: alcuni di questi spazi svolgono la funzione di sostegno alle competenze genitoriali delle mamme accolte, altri, invece, quella di vigilanza», spiega Alfio Di Mambro Centro Studi Fondazione Arché. «È chiaro a tutti che una comunità di accoglienza mamma bambino rappresenta un’opportunità per il nucleo di poter compiere un percorso di empowerment che possa portare all’autonomia e alla piena inclusione sociale, tuttavia, specialmente negli ultimi anni, e specie in alcuni contesti, i nuclei mamma bambini vengono inseriti in struttura solo in seguito ad un Decreto del Tribunale per i minorenni che ne impone l’inserimento coatto, pena l’allontanamento del solo minore».

Valutazione delle capacità genitoriali: non solo

«Ormai nell’immaginario di tutti gli organi coinvolti nella protezione del minore, le comunità sono viste come un luogo di valutazione delle capacità genitoriali. Ci si aspetta che queste strutture contribuiscano ad un lavoro peritale che consenta al Giudice minorile di decidere», chiarisce Alfio Di Mambro. «Questo doppio ruolo di vigilanza e accoglienza penso sia un problema in generale di tutte le comunità che accolgono nuclei mamma – bambino». L’immaginario della comunità come luogo di valutazione peritale diventa prassi istituzionalizzata quando, seguendo la storia giudiziaria dei fascicoli, ci si rende conto che in effetti le decisioni vengono prese dai Tribunali per i Minorenni, solo dopo un periodo di “prova” di accoglienza in comunità. Tutto ciò interferisce con il progetto di empowerment del nucleo.

Infatti «anche nel vissuto delle mamme accolte – spiega Lino Latella, educatore e responsabile Area Accoglienza di Arché, in un focus group tenuto durante le attività di ricerca – la relazione di aiuto, che si concretizza in un affiancamento quotidiano, è inquinata dallo spettro della valutazione. Come posso io affidarmi ed essere me stessa davanti ad un professionista che dovrà riferire sulle mie capacità di genitore?».

Come si è svolta la ricerca

«L’auspicio della nostra ricerca, promossa e portata avanti dal Centro Studi di Fondazione Arché in collaborazione con l’Università Cattolica di Milano e precisamente con il Centro di Ricerca ARC (Centre for the Anthropology of Religion and Cultural Change) diretto dal prof. Mauro Magatti, è stato quello di interrompere una prassi ormai consolidata che fa pensare alle comunità di accoglienza come l’ultima possibilità di una donna prima che venga disgregato il nucleo», sottolinea Gerolamo Spreafico, ricercatore ARC. Insieme hanno analizzato il contesto attuale delle comunità di accoglienza in Italia attraverso un’indagine qualitativa che ha coinvolto diverse strutture con interviste ai responsabili e alle mamme accolte, oltre che con focus group di educatori ed educatrici che vi lavorano.

La ricerca ha coinvolto le due case famiglia della Lombardia gestite da Fondazione Arché, due laziali gestite dalle cooperative sociali La Nuova Arca (La Tenda di Abramo) e Il Girotondo Onlus (Casa Aurora di Guidonia), e una comunità siciliana gestite dal Centro di Accoglienza Padre Nostro (Casa Al Bayt).

Il progetto futuro

«Desideriamo immaginare un nuovo modello delle comunità di accoglienza per mamme e bambino. Ci interessa e ci impegniamo già quotidianamente a rendere queste strutture dei luoghi dove non solo si riparano gli errori del passato ma dove anche si genera un futuro migliore e pieno di speranza per le mamme e i loro figli e figlie», sottolinea Alfio Di Mambro, che prosegue: «Secondo noi è fondamentale recuperare il senso profondo di queste strutture, che nascono come servizio di prevenzione all’allontanamento del minore, come strumento di crescita e di rimozione delle fragilità, di potenziamento delle risorse, di accompagnamento alla piena autonomia ed inclusione sociale. Come luoghi generativi». Da qui nasce il titolo del progetto: «Dalla comunità riparativa alla comunità generativa».

La ricerca di Fondazione Arché proseguirà, in collaborazione con ARC, lungo due direttrici.
Spreafico spiega che da una parte ci sarà il tentativo di allineare le figure che operano tra Comunità e Tribunale favorendo un lavoro di co-progettazione dell’intervento, di co-conduzione del percorso e di valutazione (misurare il valore generato, non controllare) condivisa. In sostanza dovrà diventare possibile che le figure dell’educatore e del coordinatore siano riconosciute e valorizzate per competenze e professionalità e legittimate ad agire durante tutta la traiettoria di accoglienza. Per uscire da una logica di pura fornitura di servizio ed accedere a un livello di cultura e continuità della cura dove gli Enti del Terzo Settore non sono subalterni agli interlocutori con cui si interfacciano ma produttori di contenuti a partire dai bisogni – sempre più differenziati – che recepiscono.

Dall’altra parte ci sarà lo sforzo di passare da una “erogazione di servizio” a una “offerta trasformativa” dove le risorse economiche e professionali impiegate siano modulate a partire dalla “domanda” e dalle potenzialità portate dalla diade mamma-bambino e non dalla “offerta” di un “posto” dentro un sistema ereditato dal sanitario, e ancora più (o peggio) dentro una logica di medicalizzazione del problema.

In apertura, foto di Volodymyr Hryshchenko on Unsplash


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