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Schiavone: «I campi profughi sono diventati campi di confinamento»

«Le strutture di accoglienza/confinamento sono volutamente collocate in aree estremamente periferiche e si giustifica questa scelta con vaghe ragioni di sicurezza», dice Gianfranco Schiavone dell’Asgi, associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. «E sono anche uno strumento di attuazione delle politiche di “esternalizzazione” dell’Unione Europea. Ma a che prezzo?». Per il 7 e l’8 maggio la Rete “Rivolti ai Balcani” ha organizzato un convegno internazionale “I campi di confinamento nel XXI secolo e le responsabilità dell’Unione europea”

di Anna Spena

Quali sono le conseguenze della politica europea sulle migrazioni in termini di violazione dei diritti umani? Cosa ha rappresentato l’esternalizzazione dei controlli di frontiera, di accordi (legali e non) con paesi terzi per respingere i migranti o comunque impedire la prosecuzione del loro viaggio verso l’Europa? La rete “Rivolti ai Balcani", insieme ad altri enti organizzano hanno organizzato un convegno internazionale, sabato 7 e domenica 8 maggio 2022, “I campi di confinamento nel XXI secolo e le responsabilità dell’Unione europea”. “Lo scopo del convegno”, si legge nelle presentazione, “è quello di esaminare, con taglio multidisciplinare e con un confronto tra studiosi ed attivisti per la tutela dei diritti umani di diversi Paesi, un tema tanto rilevante ma sottaciuto, quando non apertamente negato: la diffusione, sempre più ampia di luoghi e strutture destinati alla “accoglienza” temporanea dei migranti forzati che a ben guardare hanno la finalità reale di contenere i migranti forzati in un spazio degradato che ne assicuri solo la minima sopravvivenza fisica, comprimendo l’esercizio dei diritti fondamentali delle persone accolte/confinate e negando loro uno status giuridico chiaro. Nei casi invece in cui sia possibile per le persone accedere ad una procedura di riconoscimento del diritto d’asilo il sistema di accoglienza/confinamento è articolato in modo da dissuadere o rendere l’accesso molto difficoltoso o quasi impossibile”. Intervista a Gianfranco Schiavone dell’Asgi, associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, una delle realtà che ha collaborato all’iniziativa

Com'è nato il convegno?
Non possiamo far finta di non vedere le conseguenze delle politiche di esternalizzazione del diritto d’asilo. Da qualche mese finalmente si inizia a parlare di Frontex, dei respingimenti illegali, delle violenze che sistematicamente vengono esercitate ai confini. Ma manca ancora una domanda: “Dove finiscono le persone che non si fanno entrare nei Paesi o vengono respinte?”. Se togliamo un numero irrisorio di persone che rientrano nel paese di origine e, tragicamente, togliamo coloro che muiono. Nella stragrande maggioranza dei casi sono da “qualche parte” nei paesi di transito.

Quindi qual è lo scopo dell’incontro?
Rispondere alla domanda: “Cosa succede loro?”.Esaminare, con taglio multidisciplinare e con un confronto tra studiosi ed attivisti per la tutela dei diritti umani di diversi Paesi, un tema tanto rilevante ma sottaciuto, quando non apertamente negato: la diffusione, sempre più ampia di luoghi e strutture destinati alla “accoglienza” temporanea dei migranti forzati che a ben guardare hanno la finalità reale di contenere i migranti forzati in un spazio degradato che ne assicuri solo la minima sopravvivenza fisica, comprimendo l’esercizio dei diritti fondamentali delle persone accolte/confinate e negando loro uno status giuridico chiaro. Nei casi invece in cui sia possibile per le persone accedere ad una procedura di riconoscimento del diritto d’asilo il sistema di accoglienza/confinamento è articolato in modo da dissuadere o rendere l’accesso molto difficoltoso o quasi impossibile. I campi profughi sono una costante degli ultimi decenni. Parliamo di popolazioni intere che vivono qui per anni, basti pensare alla popolazione siriana o a quella palestinese. I campi sono la situazione più frequente in cui vivono i rifugiati nel mondo l’Unione Europea invece di cercare strategie per superare i campi li sta alimentando con nuove forme e finalità.

Come?
Crea dei veri Paesi deposito/contenitore. Tendenzialmente sono Paesi vicini alle aree di conflitto, come il Pakistan. O lungo le rotte più vicine all’Europa, è il caso di quella balcanica. Altri due esempi sono la Turchia, dove si trovano 4 milioni di rifugiati, o la Libia. Ma potremmo citare la stessa Grecia… tutti Paesi che fungono da “contenitore” per i rifugiati. Ma questo contenimento viene pagato ad un prezzo carissimo. Sia in termini economici, perché vengono drenate tantissime risorse per creare grandi strutture militarizzate, sia in termini politici, perché questi “servizi di accoglienza/parcheggio” – di questo si tratta, di servizi a pagamento – accrescono il potere politico di chi li eroga, e anche in questo caso basti pensare alla Turchia e allo smisurato potere di ricatto di Erdogan. E poi certamente il costo più grande lo paghiamo sulla vita delle persone perché non si tratta di situazioni temporanee come qualcuno potrebbe pensare. Per queste persone, in questi Paesi, non c’è nessun progetto: non avranno mai un’adeguata protezione, mai un percorso di reinserimento sociale… Ed è evidente che non possono tronare indietro perché le ragioni che li hanno spinti alla fuga permangono. La verità è che viviamo in un contesto per cui per queste persone c’è solo una mera sopravvivenza materiale in un condizione di sospensione della propria vita. Ecco perché credo che si debba parlare non di campi profughi ma in maniera più corretta di campi di confinamento. Un confinamento che spesso sconfina in forme di vera e propria limitazione della libertà senza reato e a lungo termine e comunque sempre quale sottrazione delle prospettive di vita. Le strutture di accoglienza/confinamento sono volutamente collocate in aree estremamente periferiche giustificando anche tale scelta con vaghe ragioni di sicurezza o come una necessità imposta da molteplici ragioni e condizionamenti esterni anche quando non ve ne sono affatto o quando le difficoltà potrebbero essere superate. Nel caso un isolamento marcato non sia possibile o lo sia solo in parte, esso viene creato limitando ogni forma di contatto possibile delle persone “accolte” con l’esterno, ricorrendo a forme di detenzione basate su presupposti giuridici o più diffusamente sulla base di prassi e situazioni di fatto, così che la percezione dei campi, da parte della società circostante, sia quella di un luogo pericoloso abitato da persone da evitare.

Ma l’allestimento dei campi viene presentato come una necessità dettata dall’esistenza di un contesto emergenziale…
Quasi mai c’è alcuna reale situazione emergenziale che giustifichi le scelte fatte. Nonostante siano basati su un approccio emergenziale, dunque quali realtà transitorie, questi, una volta allestiti, appaiono immobili; il decorrere del tempo non produce alcun miglioramento nelle condizioni materiali interne perché, anche in caso di presenze ridotte, ogni campo deve rimanere al più basso livello di servizi possibile allo scopo di produrre condizioni di vita che sul lungo periodo sono intollerabili. Il campo è dunque pensato in tal senso per persone che “purtroppo” esistono ma che non dovrebbero esistere. È una strategia terribile, feroce, odiosa. L’Europea organizza e riproduce campi. L’obiettivo è quello di costruire delle categorie concettuali per fare delle riflessione scientifiche partendo da cinque Paesi: Bosnia; Serbia; Macedonia; Grecia e Turchia. A fine convegno vorremmo avere pronto un documento di analisi per sollevare sa sottoporre alla commissione e al parlamento europeo.

Il Convegno, organizzato da RiVolti ai Balcani, Rete DASI FVG e dal Centro Ernesto Balducci, in collaborazione con Articolo 21, si può seguire in presenza al Centro Ernesto Balducci – Zugliano (UD)(al link le Info per iscrizione e partecipazione: https://forms.gle/enKHTrTXQqwerPGQ8 rete.rivoltiaibalcani@gmail.com) o sui canali Youtube e Facebook di Rivolti ai Balcani.


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