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Squillaci: «Aiutiamo i giovani ripartendo dai loro sogni»

Il presidente della Fict, la Federazione italiana comunità terapeutiche, durante il Convegno nazionale della Pastorale della Salute della Cei, a Cagliari, ha detto a chiare lettere che c'è una deriva nella gestione del fenomeno delle dipendenze. La necessità di passare dalle Comunità alla comunità

di Redazione

«La droga e le cosiddette dipendenze comportamentali, il gioco d’azzardo e le dipendenze tecnologiche sono una piaga che non si è fermata neanche con il Covid. Anzi, come le droghe sono entrate nelle nostre case, nel nostro quotidiano, “sono online”, sono sotto gli occhi di tutti. Ma la pandemia, togliendoci di fatto la libertà del contatto, ci ha anche insegnato l’importanza delle relazioni, il bisogno dell’altro, la necessità di condivisione». È uno dei passaggi chiave dell’intervento di Luciano Squillaci, presidente della Fict-Federazione italiana comunità terapeutiche, durante il Convegno nazionale della Pastorale della Salute della Cei, a Cagliari.

«Una questione che ritengo rilevante è la terminologia che utilizziamo», ha proseguito Squillaci. «È evidente infatti che le parole sono importanti e dietro di esse è sempre possibile intravedere una filosofia di fondo, un pensiero, un ragionamento, un significato. Ed ancora di più occorre stare attenti, in questo momento così delicato, nel quale tra le altre cose si sta scrivendo il Piano di azione contro le dipendenze. Quando utilizziamo il termine “Persone che usano droghe”, per intero o peggio nel suo acronimo Pud, stiamo di fatto considerando la possibilità che esistano donne e uomini, o anche ragazze e ragazzi o come sempre più spesso accade, bambine e bambini, che usano sostanze illegali. E questo mi pare ovvio e inconfutabile. Ma nel momento li “denominiamo”, diamo loro un nome, li stiamo identificando e qualificando. Dare un nome alle cose, infatti, significa certificarne l’esistenza. Credo che sia un messaggio estremamente fuorviante conferire una categoria specifica alle “Persone che usano droghe”, perché, così facendo, compiamo un ulteriore e decisivo passo verso la “normalizzazione” dell’uso. E la normalizzazione è l’anticamera della cronicizzazione. Ecco perché trovo incoerente, oltre che molto pericoloso, che il Piano di azione nazionale contro le dipendenze preveda tra i propri obiettivi la creazione di un Dipartimento per la tutela della salute dei Pud, facendo scomparire la dizione dipendenza, come se il Dipartimento dovesse occuparsi solo di problemi altri, magari (e non è neanche detto) correlati all’uso di droga. E tutto questo all’interno di Piano contro le dipendenze. C’è in tutto questo una evidente incoerenza concettuale».

«Eppure – ha incalzato Squillaci – il quadro delle dipendenze, in Italia, non rimanda certo a situazioni da minimizzare o peggio normalizzare. La Relazione al Parlamento sulle tossicodipendenze (dati 2020) parla di oltre 136mila persone in carico ai servizi, ma fa riferimento esclusivamente alle persone prese in carico, cioè a quella parte limitata di soggetti che fanno un uso “problematico” di sostanze e che riusciamo ancora ad intercettare attraverso il sistema ufficiale dei servizi. Manca tutto un altro pezzo di fenomeno che si stima essere cinque volte superiore e che, invece, non si riesce ad intercettare con strumenti ormai vetusti ed ingessati. In Italia infatti sono 4 milioni le persone che usano sostanze illegali, e di queste almeno 500mila lo fanno in maniera strutturale. Secondo le nuove analisi pubblicate dall’Agenzia europea per la droga e da Europol, il mercato della cocaina è ampio e in espansione e c’è un mercato attualmente piccolo, ma in costante crescita, della metanfetamina nell’Ue. Il dato relativo ai sequestri, anche in Italia, ci indica quindi una diffusione di sostanze molto elevata e in trend costante di crescita; di contro assistiamo ad un calo del numero delle prese in carico di persone con problemi di dipendenza da parte dei servizi. Pertanto, i servizi pubblici e del privato accreditato riescono a prendere in carico solo un quarto delle persone che avrebbero bisogno di aiuto. E stiamo ragionando solo di dipendenza da sostanze illegali, senza evidentemente considerare tutto il resto del mondo delle dipendenze, in primis quelle cosiddette comportamentali (internet, gioco, ecc.) ma anche alcol e psicofarmaci senza prescrizione».

«Troppo spesso questo grido rimane inascoltato e lo si intuisce dalla scarsa attenzione rivolta al tema tossicodipendenza. E lo si intuisce dai pochi posti disponibili nelle strutture italiane dedicati ai giovanissimi e alle strutture mamma-bambino, dalle disuguaglianze tra Regioni nel trattamento delle dipendenze, dai pochi investimenti sul futuro delle persone che, una volta ripresa in mano la propria vita, si trovano ad affrontare l’incognita di un futuro carico di incertezze economiche e pregiudizi. Inseguire le sostanze è una battaglia che abbiamo già ampiamente perduto. Il contrasto dell’offerta è senza dubbio importante, ma non può prescindere da una altrettanto convinta e determinata azione per la riduzione della domanda. Ma per agire seriamente sulla domanda occorre tornare al territorio, anzi alla comunità. Occorre passare dalle Comunità alla comunità. Ridisegnare il sistema in senso circolare, con un continuo interscambio integrato tra interventi territoriali, di prossimità, prevenzione e percorsi terapeutici riabilitativi. Sviluppare gli interventi all’interno di un reale sistema integrato, pubblico e privato sociale, capace di garantire non solo la pari dignità, ma anche e soprattutto l’effettiva esigibilità del diritto di scelta del cittadino utente».

«Attenzione, però: ripartire dai giovani non significa ripartire solo dai loro bisogni, ma anche e soprattutto dai loro sogni», ha detto Squillaci in chiusura. «Lavorare continuamente ed esclusivamente sui bisogni, infatti, ci ha portato a lungo ad andare a pensare solo in termini retrospettivi, spesso emergenziali. Ma fare educazione significa l’esatto opposto, vuol dire pensare in prospettiva, lavorare sulle aspirazioni, sui desiderata. Occorre quindi ripensare il modello educativo di intervento proiettandolo sul futuro e non fondandolo esclusivamente sulle esigenze, pure importanti, del “qui ed ora”. “Si tratta di modificare il paradigma attuale, cambiando prospettiva, correndo il rischio dell’educare. Per farlo bisogna tornare davvero a fare politiche giovanili e ad investire sull’educazione, cosa che nel nostro Paese purtroppo si è smesso di fare da oltre 15 anni».


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