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Economia & Impresa sociale 

Università dell’economia cooperativa? Ci vorrebbe un’Academy del welfare

Servono robuste competenze etiche e politiche per consentire di leggere i processi sociali, legittimare responsabilmente i bisogni, accompagnare il confronto e costruire il consenso in uno scenario attraversato da grandi cambiamenti le cui conseguenze ricadono sui territori. E servono competenze comunicative per raccontare i cambiamenti, ma anche per testimoniare che cambiare è possibile, e per costruire attraverso la comunicazione alleanze e pratiche di democrazia

di Francesca Paini

Mi inserisco nel dibattito sulla necessità di una università della cooperazione da operatrice (qui l'intervista a Carlo Borzaga): porto con me più di 30 anni di lavoro nella cooperazione sociale in cui ho avuto la fortuna di tagliare trasversalmente funzioni di formazione, lavoro operativo, direzione e rappresentanza.

Provo di conseguenza ad avvicinarmi al tema avendo in mente la profonda connessione tra la questione formativa, le professioni sociali e l’idea di welfare che pratichiamo, e dichiaro subito il mio punto di mira: ripensare la formazione richiede slancio sufficiente per ripensare il welfare al di fuori delle sue attuali cornici. La difficoltà (professionale, formativa, operativa,…) in cui oggi ci troviamo è, a mio parere, una crisi culturale. La cattiva notizia, è che è una cultura che riguarda un intero sistema. Quella buona, invece, è che la cultura è un prodotto sociale che -come tale- sappiamo lavorare a partire dalle nostre teste, dalle nostre scelte, dai nostri pensieri.

Spendo due parole su una lettura sinteticamente pessimista del nostro welfare sociale che sempre più spesso è dominato da logiche economiche incardinate attorno a risorse inadeguate ai bisogni, per cui a volte pare che l’unica domanda possibile -anche per chi ha le migliori intenzioni- sia “Che costi posso tagliare?”. Si tagliano costi ‘inutili’, ma anche costi indiretti come ad esempio supervisioni, coordinamenti, programmazioni che spesso vengono percepiti come accessori.

Ma se non basta, si tagliano i servizi ‘non essenziali’: e allora via i centri di aggregazioni giovanili aperti a tutti i ragazzi per fornire più ore di assistenza domiciliare a bambini in difficoltà; via la prevenzione per concentrarsi sulla cura; via i servizi che hanno valenza comunitaria per concentrarsi sulla domanda individuale. Ma se non basta ancora, la domanda individuale si può selezionare per reddito: solo chi non ha mezzi può accedere ai pochi servizi disponibili.

Ma ancora si può ridurre la domanda offrendo voucher e prestazioni in pacchetti predefiniti che incrociano solo i bisogni di alcuni lasciando scoperti i bisogni di tanti, e così via

In un welfare ridotto a mercato senza risorse, si innescano le guerre tra poveri. Vale per i beneficiari dei servizi che faticano a trovare prese in carico complessive, ma vale anche per chi nel settore ci lavora. Gli operatori del terzo settore guardano con malcelata invidia i dipendenti pubblici (salvo scoprire che spesso le aziende speciali applicano il contratto UNEBA e quindi c’è poco da invidiare). Il lavoro educativo viene diviso in due profili, pedagogico e sanitario, come se non fossero decenni che discutiamo di integrazione. Le assistenti sociali che avrebbero un mandato trasformativo sul benessere sociale finiscono tutte a lavorare sottorganico nell’ente pubblico spessissimo inchiodate a ‘gestire casi’ con carichi di lavoro insostenibili.

Il problema è che è proprio sbagliata la cornice, perché il welfare, per fortuna, è ben altro che un mercato senza soldi. È la Costituzione viva nella garanzia di pari opportunità anche per chi è ai margini. È la sussidiarietà che innesta la comunità dando valore alla partecipazione dei cittadini in un patto di corresponsabilità perché nessuno sia escluso. È un patto sociale che definisce il mondo che vogliamo dando valore al contributo, alle esigenze e alle capacità di ciascuno. Lo ha detto benissimo, e con tono un po’ piccato, l’Avvocato Guzzetti, già presidente di Fondazione Cariplo, a un incontro di candidati sindaci di un capoluogo che raccontavano le meravigliose (e vere) doti operative del volontariato: vi state sbagliando, il terzo settore ha a che fare con la democrazia e non con i servizi.

Se ripartiamo da qui, da questa idea di welfare, i bisogni formativi del terzo settore appaiono in una luce nuova. Non ci servono separazioni bizantine tra funzioni, così come non servono ordini professionali e rivendicazioni di categoria. Ci serve (ma mica a noi del terzo settore… serve a tutti) riabilitare funzioni capaci di immaginare una società diversa e competenze capaci di accompagnare il cambiamento.

Servono robuste competenze etiche e politiche per consentire di leggere i processi sociali, legittimare responsabilmente i bisogni, accompagnare il confronto e costruire il consenso in uno scenario attraversato da grandi cambiamenti le cui conseguenze ricadono sui territori. E servono competenze comunicative per raccontare i cambiamenti, ma anche per testimoniare che cambiare è possibile, e per costruire attraverso la comunicazione alleanze e pratiche di democrazia.

Serve la capacità di leggere i contesti in senso sistemico, evitando di scomporre la realtà in singole porzioni, singoli problemi, singoli cittadini, ma al contrario leggendo le relazioni ed i collegamenti, e imparando a muoversi in un contesto abitato e vivo in cui soggetti e problemi interagiscono, imparando a sostenerne il cambiamento.

Servono articolate competenze tecniche, ognuno per il proprio ruolo, per imparare ad usare al meglio gli strumenti che abbiamo (legislativi, economici, professionali, imprenditivi…) e in questo scenario serve misurarsi con le trasformazioni che il digitale inevitabilmente porta e porterà anche nel welfare e che oggi proviamo ancora ad ignorare come se questo impatto potesse essere evitato.

Le competenze che abbiamo qui sopra evocate -necessarie ad un nuovo welfare- sono mediamente poco rappresentate nei piani di studi accademici, e forse il problema non è nel piano di studi, ma in una tendenza (per fortuna non assoluta) dell’università italiana ad impiegare modelli formativi teorici e solo cognitivi che impattano superficialmente sulle competenze. Lo dico con un esempio provocatorio: inserire l’esame di ‘transizione digitale’ non aiuterà il welfare a rendersi positivamente permeabile alle tecnologie.

Se proprio dovessi scegliere un contenitore formativo, direi che ci serve una academy del welfare in cui il terzo settore potrebbe avere un ruolo trainante per vision e mission, un ‘contenitore’ capace di valorizzare riflessioni e competenze disperse, portando a sintesi e rilanciando in avanti dati empirici e riflessioni raccolte nei progetti e nella molta formazione continua che soprattutto la cooperazione sociale con i suoi sistemi sostiene e finanzia. Da qui possono uscire esperti ed esperienze, saperi e contributi in grado di dialogare e collaborare con i percorsi accademici tradizionali non solo in campo strettamente sociale: servono operatori sociali consapevoli, ma la stessa consapevolezza renderebbe socialmente più efficace anche il lavoro di architetti, manager, avvocati, ingegneri, agronomi, imprenditori, giornalisti…

Nella società delle disuguaglianze crescenti, welfare e terzo settore sono i cardini attorno a cui ricostruire equità e coesione. Alle competenze del settore affidiamo una sfida importante. A tutti noi il compito di sostenerla fino in fondo.

*Consigliere nazionale di Federsolidarietà


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