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L’Ucraina e il dolore d’ogni giorno

Ci siamo dimenticati l'Ucraina? So che non è una cosa giusta. Ma è un'ingiustizia che ha la sua radice nell'ingiustizia quotidiana, l'ingiustizia delle piccole cose insignificanti, della vita che scorre via ed evita di incontrare quel dolore continuo quotidiano.Impedendo di muoverci verso l'altro-da-noi. La riflessione di Doninelli in forma di racconto

di Luca Doninelli

Premessa

Dopo nemmeno quattro mesi di guerra in Ucraina tutta la paura, l'apprensione, la preoccupazione e gran parte dell'impeto di solidarietà dei nostri paesi ricchi sembra essersi assopito. Piano piano, scrive un amico che da una vita si occupa di queste cose, stiamo voltando sempre più la testa dall'altra parte.

È una cosa normale? Non è una cosa normale? Io non so rispondere e sospetto di chi risponde facilmente a queste domande. Non so se sia normale o no, non so cosa sia la normalità. So però che non è una cosa giusta. Ed è un'ingiustizia che ha la sua radice nell'ingiustizia quotidiana, l'ingiustizia delle piccole cose insignificanti, della vita che scorre via ed evita di incontrare quel dolore continuo, non confinabile (ospedali, carceri, cliniche psichiatriche, Rsa ecc.), frammentato nelle ore e nei minuti delle nostre giornate, del quale riusciamo a non renderci conto, anche quando ci passa vicino.

Questo sarebbe normale, credo, e scusabile anche – che ci volete fare, è la distrazione, è la testa persa in mille cose… Ma forse dovremmo domandarci se la nostra distrazione riguardo alle grandi cose non cominci da quelle piccole e piccolissime che ci avvolgono a ogni ora.

Incontri con storie rifiutate

Abito in Viale Argonne, a Milano. È un quartiere piacevole, ci sono negozi, bar, banche, e il lunedì e il venerdì nelle vie e nelle piazze adiacenti c'è il mercato. La zona è perlopiù residenziale ma ci sono anche diversi uffici, studi medici, laboratori, scuole, asili, cliniche. Molti cercano casa qui e i costi degli immobili sono altissimi anche perché tra non molto saremo attraversati da una linea metropolitana. Ci sono sempre stati molti cantieri da queste parti: nuove costruzioni, ristrutturazioni, riparazioni stradali, nuovi impianti (gas metano, riscaldamento cittadino, fibra ottica), e a me capita spesso, la mattina, di svegliarmi con il rumore di un martello o di una sega elettrica, e questo mi induce molto ottimismo, perché mi fa pensare: ecco, il mondo continua a esistere. L'esistenza è un cammino, è un andare avanti. L'uomo fermo è già morto, la sua esistenza è una contraffazione.

Amo il mio quartiere perché mi comunica la bellezza della vita nella sua versione elementare. Gente che va al lavoro, o che torna dal lavoro, gente al bar, gente che porta i bambini a scuola, gente in tuta che dietro una transenna dà indicazioni ad altra gente in tuta. Ma la vita è precaria, sempre in punta di sella tra l'esserci e il non essere. Si guarda intorno, stupefatta del proprio esistere, di questa inconcepibile possibilità – ma voglio precisare: è la vita come tale a fare tutto questo, non coloro che la portano, i quali ne sono quasi sempre ignari, ritenendola un diritto acquisito per meriti inalienabili, e perciò infuriandosi quando qualcosa mette a repentaglio questo diritto.

La sofferenza

E poi c'è la stanchezza delle ore che una dietro l'altra formano i giorni, e i giorni le settimane, e le settimane i mesi, e poi gli anni. Tutto questo si accumula sulle spalle delle persone, appesantisce il passo ben prima che una malattia, o un lutto giungano con il loro carico di sofferenza. La sofferenza infatti è già cominciata prima, e se la vita procede stupefatta di esserci il tempo ci avverte che qualcosa, dentro il procedere della vita, segna il passo, non vuole andare avanti, recalcitra.

Camminare per il mio quartiere significa per me incontrare a ogni passo questa sofferenza e comprendere – mio malgrado – che in qualche modo ne sono responsabile. Tante volte, guardando le persone intorno a me, per strada, mi viene da chiedermi: tu daresti la vita per ciascuno di loro? Per l'ultimo di loro? Per il più sconosciuto tra gli sconosciuti?

Questa domanda non è dettata dai buoni sentimenti, o da chissà quale trabocco di pietà. Per me è una domanda ragionevole, e sento che non sarei ragionevole se non me la ponessi. Forse qualcuno dirà che faccio così solo perché sono uno scrittore, e può anche essere: se non fosse che qualcuno fa lo scrittore semplicemente per poter essere un uomo, ed è probabile che tutti gli scrittori facciano quello che fanno, alla fine, per questa unica ragione. Uno scrittore, in ogni caso, è portato a porsi qualche domanda in più sulla vita dei suoi simili: lo fa per mestiere, certo, ma le domande in sé sono quelle di tutti. In fondo basta vedere come uno è vestito, come cammina, che scarpe porta, come si pettina per capire qualcosa di lui, e intuire qualcosa della felicità o dei dolori che trattiene dentro di sé, e se lui accetta o rifiuta queste cose – perché tanta gente porta dipinti sulla faccia i segni di dolori, e perfino di amori rifiutati.

Vorrei fare a questo proposito due piccoli esempi sotto forma di due piccolissime storie vere, che riguardano persone del mio quartiere.

Storia della signora che urla

Esco di casa in un giorno freddino di aprile e sento una donna che grida. Mi giro verso destra e la vedo. Si trova sul mio stesso marciapiede a una trentina di metri da me e sta inveendo contro un operaio. Ma non ce l'ha con lui, lo insulta solo perché si trova lì. Se la giustizia non mi dà ascolto grida mi dica lei, a chi mi devo rivolgere?, mi rivolgerò alla criminalità, sperando che almeno loro stiano a sentirmi! L'uomo, al quale lei si è rivolta soltanto perché si trova lì, non sa cosa rispondere, allora lei si risente, lo insulta, e tu non startene lì con quella faccia da imbecille!, poi prosegue nella mia direzione. È una bella donna, sulla quarantina, indossa una giacchetta color fucsia e un paio di microscopici pantaloncini che mettono in mostra due gambe leggermente segnate dalla cellulite ma ancora belle. È evidente che quelle gambe sono un messaggio. Mi dica lei sbraita al mio indirizzo alla camorra mi rivolgerò, alla 'ndrangheta per avere un po' di giustizia, ma mi dice in che cazzo di mondo viviamo? E di nuovo si mette a insultare anche me per una ragione qualunque, e intanto continua a camminare guardando dritto davanti a sé. Della mia eventuale risposta non le importa niente, e io non le rispondo proprio per questo.

È una situazione teatrale, una scena dove la protagonista infelice è lei, e io una comparsa. Il mio copione è scritto, è successo quello che succede nel 99,9% dei casi, niente di nuovo sotto il sole. Se un matto ti parla, ti lancia improperi, tu che non sei matto cosa fai?, te ne stai zitto, magari guardi da un'altra parte. Per questo, appena se ne va, io sento in me un filo di delusione, e mi chiedo cosa ho fatto per evitare quel banale vecchio copione. Qualcosa, in quella piccola circostanza, mi ha fatto rinunciare a essere quello che sono in favore di una recita, al posto mio chiunque avrebbe fatto allo stesso modo, stessa reazione, stessi sintomi.

Nei giorni successivi questa donna ha continuato a farsi sentire a qualunque ora, con grida sempre più alte. Compariva il fantasma di un'altra donna con aggettivi che è meglio non ripetere. La depravazione di quest'altra donna era totale, dalla sua evidente stupidità alla sua doppiezza, fino alla sconcezza delle sue azioni e alla sciattezza e alla sporcizia di cui era pervasa anima e corpo, fino alle parti intime il cui nome risuonava – nell'accezione peggiorativa – per tutto il viale. Se qualcuno guardava questa donna, o lei pensava che la guardasse – si rivolgeva a lui (o lei) in inglese, che parlava con molta proprietà. Tutte le sue frasi cominciavano con un what d'you want e terminavano con l'immancabile fuck you.

Poi è arrivato il caldo e lei è sembrata più tranquilla. Non grida, ma se ne va in giro ogni volta con un vestito diverso, le gambe sempre scoperte e la faccia completamente coperta da una mascherina nera molto grande, che lascia vedere soltanto gli occhi.

È una donna, come detto, ancora giovane, piuttosto bella e dal suo vestiario si capisce che è benestante. Io non so quale predisposizione genetica, quale turbamento profondo o quale dolorosa vicenda biografica (forse l'abbandono da parte della persona amata) l'abbia condotta allo stato attuale. Una cosa è certa: questa donna soffre profondamente, e davanti a una persona che soffre niente è più odioso che il voltare la testa dall'altra parte, come ho fatto io la prima volta in cui l'ho vista.

Mi sono domandato più volte perché non le ho rivolto gentilmente la parola per sapere cosa le era successo, se voleva un caffè. Potevo invitarla a sedere al bar lì vicino e chiacchierare un po'… So che, quasi certamente, lei mi avrebbe risposto in malo modo, però attenzione: quasi certamente non vuol dire certamente. Se mi fossi sforzato di fare come ho detto sarei stato diverso io, sarei stato quello che sono (nessuno è in quell'altro modo, nessuno volta la testa solo perché "è fatto così", nessuno è "fatto così"), e quel quasi avrebbe avuto la possibilità di far valere i suoi diritti.

Storia della ragazza magra

Il mio quartiere conosce in questi anni un periodo di quieto rinnovamento. La sua natura originariamente popolare piano piano si è alzata di tono: intorno ai negozi "classici", soprattutto di abbigliamento, sorgono nuovi posticini sfiziosi, gelaterie, rivendite di prodotti tipici, e anche i bar si moltiplicano. Accanto ai bar tabacchi e alle panetterie trasformate in bar-pasticceria-panetteria con tavolini fuori (che per Milano sono una novità recente, segno di un certo cambio di natura) sorgono gelaterie e nuove eleganti pasticcerie, pizzerie 2.0, e alcuni vecchi esercizi – come la gloriosa Cooperativa "La Liberazione" – hanno acquistato un volto alla moda, coniugando modi ruspanti, piatti semplici ma senza rinunciare a un filo di innovazione. Molti di questi locali sono ovviamente forniti di sito web e di tutti i possibili profili social. Si moltiplicano anche le agenzie immobiliari.

Il cuore di questo mutamento è la via più attraente del quartiere, Via Lomellina, la principale traversa di Viale Argonne in direzione sud. È bello passeggiare per Via Lomellina, sotto i suoi bagolari che nel primo mattino si riempiono dei canti forsennati di migliaia di uccelli ghiotti delle loro bacche. La via è generalmente affollata, soprattutto tra le diciotto e le venti, all'ora delle compere serali.

C'è però un posto particolare, in Via Lomellina, dove la vita reale irrompe senza lasciare spazio a nessun make-up. È un piccolissimo bar, con la vetrina di una luce sola. Sulla vetrina compaiono alcuni fogli scritti a mano e attaccati con lo scotch con frasi e piccoli disegni che invitano a entrare e godersi una piccola pausa. Una mano infantile ha scritto quei fogli, una mente disperatamente ingenua li ha pensati. Guardo i piccoli calici, le fette di limone, le tazzine di caffè fumante disegnate, e mentre guardo ecco che una voce gentile mi saluta dall'interno del locale, domandandomi se desidero qualcosa. Il locale è buio, stretto e lungo. Un lato è occupato dal bancone, sull'altro sono sistemati alcuni tavolini a fil di parete.

Chi mi saluta è una ragazza che potrà avere venticinque anni, magrissima. Di sicuro non arriva ai trenta chili. La sua incomprensibile, enorme sofferenza mi assale attraverso parole gentili e anodine. Sorride ma si capisce subito che la sua condizione è tale da impedire in lei dei sentimenti veri e propri, per i quali sono comunque necessarie energie fisiche che lei non ha. Ho conosciuto diverse ragazze nella sua stessa situazione, alla quale noi applichiamo un termine paramedico: anoressia. Una parola che non dice, vuota e rumorosa.

Ordino un caffè, lei mi chiede se lo desidero in tazzina o al vetro, se ci voglio dentro della nutella, se voglio prendere anche un dolcetto, un biscotto. Due campane di vetro appoggiate su altrettanti piatti nascondono in tutto tre o quattro minuscoli biscotti. Rispondo che mi basta un caffè al vetro. Neanche un biscottino? mi domanda, con un sorriso che è come una pugnalata, e al quale non riesco a opporre alcun rifiuto. Scelgo un biscottino qualunque – è alla cannella – mentre aspetto il caffè, che è molto buono. La ragazza mi chiede se abito lontano. Le rispondo che passo di rado per Via Lomellina. Insiste perché prenda qualcos'altro, no, rispondo, sono le dieci del mattino.

Nel bar siede un signore anziano, mezzo addormentato. Tutte le volte che verrò incontrerò soltanto persone anziane, ed è chiaro perché sono loro a frequentare il piccolo bar di questa ragazza: perché non hanno paura di lei, ma provano soltanto una grande pietà. Lei è la figlia, la nipote sfortunata. Esce da dietro il bancone reggendo un vassoio con due cappuccini. Il suo modo di camminare è rigido, vetroso. Decido, quando posso, di venire a prendere qui il mio caffè di mezza mattina. Lo faccio per una, due volte. Ora che riconosce la mia faccia, la ragazza è sempre gentile, ma meno cordiale. Non mi invita a prendere dolcetti e mi serve il mio caffè al vetro.

Questa mattina però il suo bar era chiuso. Domando notizie al negoziante accanto, lui risponde di non sapere e poi mah, cosa vuole… aggiunge, con la tristezza di chi aveva fatto da tempo una facile previsione. Riaprirà?, chiedo. Lui scuote la testa per non ripetere mah, cosa vuole… Si vede che conosce tutta la storia, sa perché quella ragazza è venuta a lavorare qui, e sa che non doveva farlo.

Concludo

Poi c'è, naturalmente, tutto uno sciame di mendicanti che in strade come questa non mancano mai. Dare loro qualche soldo non è difficile, perché non ci chiedono di entrare nel loro mondo: sono loro a entrare nel nostro, quanto basta per allungare una mano e ricevere il pagamento per quel gesto. È un atto d'acquisto, che funziona a patto che noi non ci domandiamo cosa abbiamo acquistato davvero e cosa quell'individuo ci abbia venduto. In tutto questo non c'è un dolore: un contratto lo sostituisce.

Ma queste due storie non appartengono ad alcun contratto, e risucchiano l'anima, se l'anima non finge. Mi costringono ad allargare i confini della mia coscienza quotidiana, a ricordare che ogni istante, ogni incontro è un viaggio da accettare, con tutti i suoi rischi, se voglio continuare a esistere davvero, se voglio mandare in giro me stesso e non la mia statua, o la mia scimmia.

Cosa posso fare io per queste due donne?, per queste due creature? Nulla, probabilmente. Non le conosco, a parte quello che vedo di loro, che è poco ma mi basta a cogliere un dolore enorme, dal quale non mi posso staccare se non operando – stavolta però consapevolmente – la mia finzione quotidiana.

Basta un istante di riflessione per capire che non dovrebbe andare così. Eppure, è così che va, è così che è andata: davanti a loro una parte di me si è ritratta. Non la parte che prova la solita generica pietà, non la parte empatica, insomma non tutto quello che mi fa dire "poverino, eccoti un euro", ma piuttosto la parte più essenziale, quella che avanza nel mondo le proprie domande: cosa ti è successo?, cosa ti hanno fatto?, chi è stato?, cosa posso fare per te?, come stai?, perché sei qui?, ti piace la tua vita?, vuoi parlare?, cosa ti fa male? e mille altre come queste. Quella parte che ci spinge a essere quello che siamo, a muoverci verso l'altro-da-noi non per un impeto di generosità, non per l'altro, ma per noi stessi, per abitare la vita in modo un po' più umano.


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