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Economia & Impresa sociale 

Rilanciare il Paese, ecco perché partire dalle zone marginali

Giovanni Teneggi, direttore generale di Confcooperative Reggio Emilia e responsabile del progetto “Cooperative di comunità” di Confcooperative, ci racconta cosa sono quelle che, una volta, si chiamavano "aree depresse" e come mai possono essere luoghi da cui ripartire per uno sviluppo economico più lento, giusto e sostenibile

di Veronica Rossi

Soggette a spopolamento ormai da decenni, le Aree interne sono le zone più periferiche del Paese. L’Italia, con la sua grande estensione di montagne e piccole isole, ne è particolarmente ricca. Visitando e vivendo questi territori marginali, però, è facile accorgersi di come possano essere degli incubatori per un futuro più sostenibile, dal punto di vista ambientale ma anche sociale e finanziario. Ce ne ha parlato Giovanni Teneggi, direttore generale di Confcooperative Reggio Emilia e responsabile del progetto “Cooperative di comunità” di Confcooperative. Teneggi è l'esperto che abbiamo sentito proprio per completare la sezione "Aree interne" di VITA Giugno, in edicola e acquistabile QUI.

Aree interne, come si caratterizzano?

Se parliamo in termini amministrativi, ci riferiamo a quel perimetro di zone montane e rurali disegnato dalla Strategia nazionale delle aree interne. Si tratta di territori soggetti a un forte spopolamento, un lungo ed esteso choc demografico. Sono luoghi in cui c’è una forte crisi culturale, una perdita delle radici che gli stessi abitanti hanno decretato come superate, anche in termini di realizzazione personale e professionale.

Ci sono delle comunità da riscoprire, quindi?

Provocatoriamente dico che non ci sono comunità da riscoprire e risvegliare: le comunità non esistono più. Serve un’attività intenzionale di figlie e figli ritornanti, che consapevolmente innescano processi di trasformazione, tant’è che le esperienze di intraprendenza nascono e prendono vita più facilmente in uno spazio culturale di mezzo tra persone autoctone e persone aliene, decise a costruire una biografia, anche temporanea, su un territorio.

Cos’è valorizzabile nelle aree interne?

Sembra paradossale, ma il primo elemento è la rarefazione, il fatto di avere degli spazi vivibili: c’è la possibilità di stare sulle trame, piuttosto che essere portati dai flussi. È un’opportunità di ritrovarsi, di fare comunità.

Ma c’è anche una ricaduta economica?

Si. Gli economisti più lungimiranti ora dicono che la comunità, le relazioni anche fisiche tra le persone e la prossimità sono ciò su cui bisognerebbe investire maggiormente nel mondo contemporaneo. Nelle aree interne questo è possibile molto più che altrove. Parliamo di processi di trasformazione che partono da alleanze tra il territorio e i nuovi abitanti, come nel caso di Pontremoli, dove agli smart workers, oltre alle postazioni fisiche, sono state offerte anche delle occasioni di incontro con la comunità.

Quali sono gli ingredienti per un progetto di rigenerazione di successo?

La condizione principale sono le persone che scelgono consapevolmente di stabilirsi, anche solo per un periodo, sul territorio. Poi, nella pratica, c’è bisogno di avere accesso al patrimonio tangibile di un luogo, come un bosco, una piazza, un vecchio negozio da rinnovare. Serve anche un investimento in termini di capitale umano, amministrativo e politico e finanziario; bisogna, in più, avere delle infrastrutture digitali ma anche comunitarie, far dialogare il locale, il prossimo, col globale.


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