Economia & Impresa sociale 

Al Rèves, i primi 10 anni della sartoria che aiuta a tessere trame di vita

Ha tagliato il traguardo del suo primo decennio di vita "Al Rèves", sartoria sociale che ha sede in un bene confiscato alla mafia di Palermo. Uno spazio nel quale hanno avuto la possibilità di trovare una propria dimensione oltre 500 persone, ognuna delle quali con difficili percorsi di vita. Una rete valoriale che risponde con la legalità anche al lavoro nero dilagante in un settore artigianale come il tessile

di Gilda Sciortino

È la prima impresa sociale nata a Palermo in un bene confiscato alla mafia. Una realtà imprenditoriale che non vuole essere identificata con un progetto, ma come servizio frutto di un impegno di comunità, della storia di comunità. Persone che si scelgono e che diventano famiglia, della quale fanno parte coloro che ci lavorano al pari dei clienti.

E come tutte le famiglie che si amano, nessuno ha voluto mancare ai festeggiamenti dei primi 10 anni di vita della Sartoria Sociale “Al Revès”, un momento di festa davanti e dentro i locali di via Casella, arricchito dalle testimonianze di chi ha voluto confermare l’idea e il senso di una comunità che ha saputo costruire insieme.

«Dieci anni sono tanti e difficili da racchiudere in un discorso, ma ci proverò – afferma Rosalba Romano, fondatrice e anima della sartoria sociale – . È bello vedere oggi tutte le persone con le quali ci conosciamo da oltre 10 anni. Con il nostro autofinanziamento abbiamo aperto la Sartoria Sociale scegliendo il costante impegno per le persone e per l'ambiente. Oggi possiamo dire di avere raccolto 20 tonnellate di scarti tessili che, dopo la carta, sono i più inquinanti al mondo. Il 90% è stato rimesso in circolazione con la vendita vintage e con il riutilizzo dei tessuti attraverso le nostre produzioni. Abbiamo accolto e seguito oltre 500 persone, tra migranti, persone con problemi di salute mentale, soggetti che hanno avuto incidenti di percorso con la giustizia o che hanno incontrato altre difficoltà. Non è stato facile perché, lavorare con le persone adulte significa superare pregiudizi, dare voce alle sofferenze maturate durante la vita, non giudicare, allenarsi alla convivenza, testimoniare le scelte e i valori morali. Lavorando con gli adulti bisogna mettersi in gioco e dare l’esempio per essere credibili e accoglienti; significa anche educare la genitorialità, aprirsi alle esigenze dei figli e ampliare gli orizzonti sulle prospettive».

Un lavoro non indifferente, quello che si è dovuto fare e che si continua a fare per costruire una rete valoriale nella quale ognuno non debba avere più paura di essere se stesso.

«Tutti abbiamo avuto le nostre difficoltà, tutti siamo ex di qualcosa – aggiunge la Romano – . Siamo persone che non si vergognano di ammetterlo e che, nello spirito di una rete di solidarietà, si danno e danno una mano. Prova ne è che il nostro servizio non ha chiuso neanche durante un giorno durante il Covid che abbiamo affrontato producendo mascherine e portandole ovunque. Siamo persone qualsiasi, cittadini che hanno scelto di non cedere alla crisi depressiva».

Una comunità, una famiglia che ha deciso di praticare la solidarietà con gesti concreti. E lo fa attraverso la storia delle singole persone che sono passate e anche rimaste in questo spazio di condivisione. Dieci anni che si fondano sull’impegno di chi, quando ha varcato la soglia di “Al Rèves”, non si aspettava minimamente che la sua vita sarebbe cambiata.

«In questo luogo simbolico ho ritrovato la voglia di amare gli altri e me stessa – dice Serena -. Ho 55 anni e sono anch'io ex di qualcosa. La Sartoria sociale mi ha dato tanto, ma soprattutto mi ha fatto capire che anch'io potevo essere di aiuto a chi aveva bisogno perché, se ognuno di noi ha valore, questo si manifesta nella realtà con la sua stessa condivisione. Ho trovato una famiglia che mi si è rivelata inaspettatamente, in un momento in cui avevo bisogno di ricostrure la mia vita e la mia identità».

«Sono arrivata nel 2018 – racconta Katya – e con il tempo ho capito che il bene comune siamo noi. Abbiamo affrontato momenti difficili, ma siamo riusciti a superarli tutti insieme. Ciò che rende speciale la Sartoria Sociale è l'energia di tutte le persone che ne fanno parte. In questo luogo ho conosciuto persone con qualità personali che hanno formato un arcobaleno».

Testimonianze che danno il vero senso di un lavoro e che, grazie all’umanità di persone la cui vita è stata sempre in salita, ha creato le condizioni per aiutare tante altre persone.

«La Sartoria Sociale è la dimostrazione concreta che siamo tutti importanti l'uno per l'altro – tiene a precisare la presidente, Roseline Eguabor -, ma bisogna essere pazienti con tutti perché ogni pianta ha bisogno del suo tempo per crescere. Abbiamo fatto tutti i nostri errori, dai quali possiamo solo migliorare. Io sono la dimostrazione che, incontrando le persone giuste, puoi trovare la tua strada. Vengo dalla Nigeria e sono a Palermo da oltre vent'anni. Sono arrivata perché, facendo parte di una famiglia numerosa, avevo la possibilità di sposarmi molto giovane o di andare via. Quando, però, sono arrivata, ho capito che dovevo ricominciare tutto dall'inizio.Tutti i miei sogni si erano frantumati, ma ho avuto la fortuna di trovare una famiglia italiana che mi ha aiutato, così ho poi deciso di fare la mediatrice culturale perché ho capito quanto fosse importante non essere lasciati da soli. Per molte ragazze questo non accade e cadono in un burrone dal quale difficilmente riescono a uscire, anche volendolo. Ecco anche perché per me è importantissima l'istruzione, in quanto può offrire opportunità di scelta a tutte quelle giovani donne che incontrano persone che, di fronte alle loro difficoltà, offrono loro di imboccare strade pericolose».

«Sono arrivata qua circa tre anni fa per fare un’esperienza di tirocinio e dopo poco è scoppiata la pandemia. Un periodo molto particolare sia perché era la prima volta che mi sperimentavo nel mondo del Terzo Settore sia perché dovevo superare le difficoltà di relazione con gli altri, perseguendo allo stesso tempo gli obiettivi che mi ero prefissata».

Per Roberta Autolitano, oggi assistente sociale e la più giovane socia di “Al Rèves”, la sartoria sociale è stata una continua scoperta.

«Mi sono ritrovata a vivere un'esperienza più ricca di come me l’ero immaginata. È stato un incontro di intenzioni, di senso, tant’è vero che abbiamo deciso di proseguire questo percorso insieme e ora sono dipendente a tutti gli effetti della cooperativa».

La maggior parte dei soci è costituita da donne e alcuni sono soggetti svantaggiati. Tra i volontari che hanno cominciato a sperimentarsi in questo settore c’è Karifa, uno dei sarti, anche lui oggi lavoratore effettivo. Non ama parlare, ma lavorare e lo fa con competenza e professionalità.

« Cosa ho pensato esattamente quando sono arrivata qua? Cosa ci facessi in un posto del genere. Poi ho capito che la sartoria sociale non è un posto – tiene a precisare la Autolitano – , ma un luogo in cui ci sono persone diverse, senza le quali non esisterebbe nulla. Sta proprio in questa molteplicità di anime la forza di “Al Rèves”».

Storie, esperienze, che si uniscono e che assumono ancora più valore in quanto praticate in un bene confiscato alla mafia.

«Gestire un bene confiscato è una grande responsabilità. Vuol dire testimoniare la legalità, non con le parole ma con i gesti quotidiani. Il bene comune siamo tutti noi quando costruiamo percorsi di solidarietà e sussidiarietà che vanno oltre l'io e oltre le parentele familiari. Libera e Addiopizzo ci hanno sempre spronato e sostenuto nella scelta della legalità, tema difficile in un settore artigianale come il nostro che vive nel nero. E il lavoro nero, lo dico forte e chiaro, alimenta la criminalità e lo schiavismo delle persone. Ora, però, guardiamo al futuro continuando a fare sogni che poi speriamo si tramutino in realtà».

Tanti i desideri che hanno già nel loro Dna la concretezza di azioni che guardano sempre agli altri.

«Ci piacerebbe trovare un'altra sede per occuparci meglio del riciclo tessile e aprire nuovi spazi educativi ambientali. Ci piacerebbe anche implementare il lavoro educativo nelle scuole – conclude la Romano – , ma vorremmo anche impegnarci nella coesione di comunità, a cominciare dalla stessa strada in cui abbiamo sede, dove vorremmo avviare un processo di comunione con tutti i commercianti e cittadini, promuovendo delle giornate grazie alle quali far rinascere l'economia e coltivare le relazioni per il comune benessere. Non volteremo lo sguardo davanti al dilagare della droga perché non è un problema degli anni ’80, non è un problema di pochi e solo di una fascia di età. Conosciamo il dramma esistenziale e le voragini che si aprono davanti a queste situazioni e proveremo a cercare altre realtà che si vogliono impegnare, organizzando spazi di ascolto e di intervento, al fianco dei servizi sanitari sempre più stanchi e pressati dei problemi economici. Ecco le nostre piccole ambizioni, ecco l'idea che abbiamo del nostro fatturato: un'economia di comunione alla maniera descritta da Luigino Bruni, sostanzialmente un fatturato di umanità».


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