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I borghi? Non luoghi rifugio, ma un patrimonio da amare

Vivere in un borgo realizzando il sogno di trovare pace dalla frenesia della città? Il sogno di molti, ma per Anna Rizzo, autrice del libro "I paesi invisibili. Manifesto sentimentale e politico per salvare i borghi d’Italia" è solo l'immagine rassicurante della propaganda digitale che non fa, per esempio, i conti con il fatto che quelli più incontaminati non consentono quelle connessioni di rete che servirebbero per lavorare da remoto

di Gilda Sciortino

È un viaggio sentimentale, le cui radici sono quelle scientifiche di un’antropologa culturale da oltre 12 anni dedita a raccontare i paesi attraverso chi li vive e chi li abita, quello al quale ci invita a partecipare Anna Rzzo attraverso “I paesi invisibili. Manifesto sentimentale e politico per salvare i borghi d’Italia”. Libro che ha deciso di scrivere utilizzando l’autofiction come escamotage narrativo per consentire al lettore di immergersi nella realtà che la stessa autrice vive da sempre in prima persona, identificandosi con i luoghi e le persone protagoniste di questo percorso che ormai da tempo si sviluppa a Frattura, paese di poco meno di trenta abitanti a 1260 metri sul livello del mare, nel cuore dell’Abruzzo interno, dove la Rizzo è arrivata nel 2010 grazie a una missione archeologica dell’Università di Bologna e dove ogni anno, dal 15 agosto a metà ottobre, va in missione diventando tutt’uno con la natura che ancora resiste agli attacchi devastatori della mano umana.

Un luogo affascinante anche dal punto di vista storico in quanto Frattura è noto come il Paese delle Vedove bianche in quanto, soprattutto nel Sud Italia degli anni '40 e '60, paesi e frazioni come questoo hanno subito un'emorragica emigrazione dei componenti maschili della famiglia, mariti, fratelli, padri che, per motivi economici, sono partiti verso il sud America, Nord Europa e Stati Uniti. Molti di loro, però, non fecero più ritorno facendo perdere le tracce.

Una capacità, la sua, di renderci partecipi del suo modo di studiare e riportare sulla carta i risultati del suo ricercare, umanizzando allo stesso tempo i luoghi e facendoci empatizzare con gli abitanti e con gli incontri che hanno inevitabilmente arricchito la sua vita. Come e quando, ad apertura del libro, narra del Cilento.

"Mentre scrivo sono in una delle aree più remote d’Italia, dove e ancora possibile assistere a un mondo antico e sigillato, a contatto con una contemporaneità feroce e veloce. Stanno tutti insieme, il vecchio e il nuovo, le residenze d’artista e l’abbandono. Mi hanno invitata per una conferenza sui paesi e la riattivazione culturale. Siamo ospiti in case vuote, messe a disposizione dagli ultimi abitanti rimasti nel paese. Vivo con due ragazze, una regista, una danzatrice bielorussa e due ragazzi campani artisti del fuoco. È dicembre e fa un freddo insopportabile. Il luogo dove dormiamo non è dotato di riscaldamento ed è difficile prender sonno per l’umidità e l’aria gelida. La luce di un lampione all’altezza della finestra riempie la stanza di arancione. Faccio un primo giro nel paese disabitato, non ci vive più nessuno. Vedo un’unica casa illuminata con la porta aperta. La temperatura è sotto lo zero e non capisco perché quella porta sia aperta da almeno ventiquattro ore, la luce accesa in tutte le stanze, anche dopo la mezzanotte, e la televisione ad alto volume. Sul davanzale della finestra c’è del cibo in decomposizione, carta stagnola e bottiglie di vetro. Spingo la porta in alluminio ed entro. Un odore di urina, feci e putrefazione mi travolge.

Un tanfo irrespirabile di sporco, putrido e vecchio. Mi metto la mano sulla bocca e mi copro con lo scaldacollo. Tutti i sensi reagiscono all’aggressione olfattiva, metto a fuoco la stanza, i mobili, il corridoio, le scale che portano al piano superiore, le pareti verdi e un divano di legno coperto di cuscini sudici, quasi neri. C’e vita. Davanti a me una signora di un’età indecifrabile, dagli ottantacinque ai cento anni, seduta in fondo alla cucina, davanti a una stufetta. Senza calze, indossa una gonna, una maglia e uno scialle. Ferita alle gambe, quei tagli che hanno gli anziani

che non si rimarginano più. Vorrei chiederle qualcosa, ma fa troppa puzza, non riesco a parlare e ho paura che mi venga una reazione alla pelle per lo sporco. Da una stanza adiacente si sente una tv accesa ad alto volume. Riesco a figurarmela: con un letto disfatto e cumuli di vestiti. Non oso fare un passo avanti né indietro. Confesso di non essere preparata. Queste scene mi allarmano e mi fanno stare male. Penso che dovrei lavarla, aiutarla, pulire questa casa e capire di cosa abbia bisogno. Ma non riesco a fare nulla. Mi chiede di ritornare. Mi sento in un reportage, in un luogo altro, lontano, non mio. Non ci sono tracce di cibo fresco da nessuna parte, solo cose molto vecchie, poggiate in modo ordinato. La signora sembra non compiere alcuna azione, se non stare lì da sempre. La saluto, me ne voglio andare. Mi chiede di non chiudere la porta. Fuori fa freddo, la lascio socchiusa. Solo dopo capisco che e l’unico modo che hanno i vicini per controllare se e ancora viva”.

Un racconto, lo si capisce dalla penna che scorre fluida e che, come dice lei stessa, può esistere solo se si abbandona l’atteggiamento accademico e si prova veramente a capire attraverso l’esperienza diretta.

Un viaggio, un percorso che ha inizio 12 anni fa.

«Comincio a occuparmi di paesi l'anno successivo al terremoto de L'Aquila – racconta la Rizzo – , quando ci si interrogava su come e dove ricostruire. Un’interlocuzione, la mia, che ha inizio non con le istituzioni ma con le comunità che si fanno portavoce delle istanze di chi li abita, mettendo al centro la loro volontà di rimanere in territori comunque difficili. Questo sia per esigenze lavorative sia perché legati ad attività agricole pastorali. Si sviluppa anche l'attivismo di queste piccole comunità che a L’Aquila erano sotto i riflettori ma che, nel resto dell'Italia, rimangono inascoltati vedendo disfarsi le reti sociali legate al welfare. Assistiamo a una perdita della mobilità interna non esistendo più le corriere, le strade per raggiungere i cimiteri; molte, poi, le persone chye vanno via alla volta dei capoluoghi. La perdita di reti sociali di vicinato significa anche scomparsa dei medici di base perché quelli assegnati alle frazioni si danno in un certo senso alla macchia, peraltro senza controllo. Così gli ambulatori, spesso stanzette dentro edifici pubblici, vengono puliti dagli stessi pazienti, magari i più anziani, che si curano anche degli arredi. Di fatto è come se fossero zone d'ombra senza nessun peso specifico, anche perché non fatturano nulla».

Un lento degrado che riguarda tutto il paese, dove le strade vengono pian piano invase dall’erba sempre più alta, con i palazzi che vanno crollando perché molto spesso contesi da eredi che non riescono a mettersi d’accordo, preferendo trasformare in rudere un edificio che una volta aveva grande valore storico.

Perché allora il mito del ritorno ai borghi affascina così tanto? Un sogno, un miraggio?

«Il ritorno ai paesi di fatto non esiste, è semplicemente un trend della pandemia che ha portato a fantasticare una possibile fuga almeno mentale verso luoghi migliori. In realtà, però, questo argomento si sposa anche col tema del cambiamento climatico nel senso che, soprattutto gli innovatori accademici, pensano che i borghi siano quelli in cui scappare dalle città bollenti. Invece, parliamo di zone che si dovrebbero preservare perché rimaste incontaminate. Se, però, vogliamo salvarli, forse dovremmo evitare di antropizzarle o di trasformarle in luoghi rifugio».

E quando si pensa che siano ideale per fare Smart Working?

«Una delle immagini usate per promuovere un convegno sullo Smart Working nelle aree interne era una ragazza seduta su uno strapiombo affacciato su una vallata con un portatile sulle ginocchia. La mia paura e che si pensi davvero che si possa fare tutto questo vivendo nei paesi o nelle regioni del sud Italia, lavorando in spiaggia bevendo un gin tonic o seduti su una rupe nell’entroterra abruzzese. L’immagine del ritorno ai paesi mette in scena un’Italia pacificata, volenterosa, capace di una memoria che non dimentica gli anziani, che declama i valori della famiglia, delle origini ed é legittimata da vecchi poteri. Il paese inteso come alternativa, come riparazione, come rifugio, un’ immagine rassicurante che è solo frutto di una propaganda digitale concentrata su contenuti non verificati, su modelli di business legati ai like, su discussioni svolte online, che non hanno risolto molto. Più praticamente, per fare Smart Working si dovrebbe avere un lavoro che consente di stare in un paese in cui non c'è neanche una corriera per portarti in città o all'aeroporto, dove spesso la connessione non è sufficiente per lavorare da remoto. Inoltre, perdendo tutta la parte relazionale di reciprocità e di crescita che, comunque, nonostante la difficoltà di lavoro in team, è quella parte che ci fa crescere, ci rende più produttivi. Nel paese non si ha modo di confrontarsi sul proprio lavoro, soprattutto se è di intelletto e necessita di stimoli».

Parlando di crisi narrativa dei paesi, entrano in campo concetti profondi come, per esempio, la cura. In che senso?

«Parlo di abbandono perché la cura non esiste. Esiste solo quella portata avanti dalle donne che si occupano degli anziani, dei parenti, dei mariti e dei bambini. Le donne si occupano anche dei piani terapeutici, del portare i familiari dal medico. Il lavoro delle donne non viene considerato, è declassato a problema personale e non sociale; non viene visto neanche dagli amministratori perché spesso i gruppi consiliari sono costituiti prevalentemente degli uomini che, a loro volta, vivono la loro condizione di privilegio, non rendendosi conto delle necessità e del lavoro che sottrae le donne alla libera professione come anche alla possibilità di disporre del tempo libero a loro piacimento».

Cosa si intende quando si parla di etica dell'abbandono?

«Si stanno abbandonando tutte le categorie sotto rappresentate, come i ragazzi che rimangono al bar appoggiati al muro. Bisognerebbe occuparsi di loro perché non sono stupidi o non sanno cosa fare. Sono persone che non hanno voce perché probabilmente non hanno gli strumenti culturali, psicologici e finanziari che le famiglie non hanno saputo o potuto dare loro per poter capire qual è la strada capace di dare il giusto risalto alle loro capacità. Io pagherei perché, al posto del Pnrrr, si potesse dare un voucher di 10mila euro all’anno per offrire l’opportunità ai nostri giovani di studiare all’estero. Magari, poi, potrebbero tornare per contribuire alla crescita del loro territorio. Potrebbero rimanere fuori, ma sarebbero più felici».

Temi, quelli trattati nel libro, che all'inizio della sua attività di ricerca, le hanno creato non pochi problemi…

«Quando i miei articoli e le interviste cominciarono a circolare – scrive ancora la Rizzo – fui sommersa di critiche. Parlavo delle mancanze, dei vuoti istituzionali, delle mafie rurali, argomento ancora sommerso, fino a quando, nel 2015, Diego Gandolfo e Alessandro di Nunzio vinsero il "Premio Roberto Morrione" per il miglior reportage d’inchiesta giornalistica con Fondi rubati all’agricoltura, facendo emergere l’esproprio da parte delle mafie locali in Sicilia di enormi latifondi a danno dei loro ignari proprietari, per intercettare i finanziamenti europei. Si è, così, scoperta tutta la brutalità della mafia rurale dei pascoli e agraria, un racket difficile da combattere autonomamente per i proprietari. Con i miei articoli andavo contro quello che erano le programmazioni delle pubbliche amministrazioni, quindi ero abbastanza scomoda. Quando si parla di transumanza, per esempio, non si dice che il pastore non può fare la dialisi perché nessuno lo accompagna e muore dopo una settimana perché non chiede a nessuno, senza che interessi a qualcuno. La transumanza, però, è patrimonio Unesco. Il pastore no».

Il suo cuore è stato in un certo rapito dall'Abruzzo. Un luogo particolare tra tutti?

«Ovviamente Frattura Vecchia, distrutta dal terremoto e rimasta così per tanto tempo, sino a quando piano piano qualche casa è stata recuperata. È un posto iconico per l'Italia, un borgo nel quale le mura delle case sono anche le mura del paese. Vicino c’è anche un lago a forma di cuore sul quale si affacciano sia Frattura Vecchia sia Frattura Nuova. Io nasco a Palermo, vivo a Bologna, ma per tre mesi ci vado in missione chiedendo in concessione l'uso dell'ex scuola, adesso museo. Praticamente dormo in una stanzetta del museo che mi hanno arredato i fratturesi. Vivo con loro per tre mesi, mi occupo del pascolo, vado nei campi a lavorare il fagiolo bianco, una coltivazione studiata e trattata insieme alla gente del posto, facendolo diventare uno dei prodotti locali più importanti attraverso un’azione di consapevolezza e recupero, senza la quale probabilmente, nel giro di pochi anni, tutto sarebbe perduto. Un lavoro che ci ha portato nel 2014 a fare parte dell’Arca del Gusto di Slow Food per la Biodiversità. Parallelamente faccio documentazione realizzando le interviste che prima facevo privatamente, mentre adesso loro stessi le voglio fare tutti insieme, quindi sono sempre con loro. Quest’anno hanno già pianificato la catalogazione degli oggetti del museo, mentre io lavorerò sull’emigrazione storica che interessa Frattura. Quello che faccio è lo scarto tra chi è teorico e chi vive il territorio. A differenza di alcuni accademici che si stanno intestando le vite degli altri, nel senso che magari scoprono modalità aggregative e relazionali e ne parlano come se una propria visione. Si intestano ciò che in realtà appartiene alla gente del posto, che non saprà mai di essere presente nei vari convegni e non lo verrà mai sapere. Questa viene chiamato appropriazione culturale».

Quali sono le figure che le sono rimaste nel cuore?

«Sicuramente Rosetta, una vecchina che assomiglia a mia nonna. Era del 1922, sempre lucidissima e super forte. Abbiamo condiviso tutto. Prendevamo le medicine insieme, ci vestivamo uguali. È stata un’amica e una confidente, un riferimento durante il campo di ricerca e nella vita. Rosetta è stata coerente a se stessa fino alla fine e non si è mai arresa. Voleva vivere da sola perché non aveva bisogno di nulla e nessuno. Io credo che abbia vissuto così tanto e che la vita delle donne di Frattura sia così longeva e con fisici da cinquantenni perché sono vedove da almeno 70 anni. Sono state in grazia di Dio e senza i pensieri del matrimonio che solitamente logora».

E la vecchina con la quale questa storia ha inizio?

«La incontrai a dicembre del 2019, poi con la pandemia non sono più tornata e non so se è ancora viva. La trovai immersa nel silenzio, ma anche in un freddo insopportabile. Le chiavi lasciate dietro la porta, poi, non sono leggenda. Serve effettivamente a controllarsi a vicenda, mostrando quella cura che in contesti altri, nelle città per esempio, non esiste più».

Le foto sono di Claudio Mammucari


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