Politica & Istituzioni

Terzo settore e politica, non è paura di fare il salto, ma di saltare nel vuoto

Giuliano Amato, presidente della Corte Costituzionale, aprire una riflessione che è diventata un suo file rouge nell’ultimo anno: i milioni di operatori del terzo settore hanno paura di entrare nei partiti? Perché non fanno un passo avanti? I volontari, gli operatori e le operatrici sociali sono in buona parte fuori dalle competizioni elettorali probabilmente perché i contenitori in cui dovrebbero entrare semplicemente non sono adatti al travaso

di Angelo Moretti

Il Meeting di Rimini ha il merito di spingere il grande pubblico a dibattere di politica nel periodo più vacanziero dell’anno.

Quest’anno poi non poteva capitare periodo migliore, con una campagna elettorale caldissima e scontri tra schieramenti che diventano preponderanti sui media, anche più di una guerra in corso nel cuore dell’Europa. Questa volta è toccata a Giuliano Amato, presidente della Corte Costituzionale, aprire una riflessione che è diventata un suo file rouge nell’ultimo anno: i milioni di operatori del terzo settore hanno paura di entrare nei partiti? Perché non fanno un passo avanti?

Il timore esplicitato da Amato è che questo esercito addestrato a perseguire il bene comune sia lontano dalla campagna elettorale in corso, indebolendone il risultato politico finale. “Mesi fa avevo proposto al volontariato di offrire il suo contributo, ma ha avuto paura di essere strumentalizzato”, ha osservato.

Secondo Amato questa “distanza” tra terzo settore e partiti nuoce al paese, perché ci condanna ad avere una rappresentanza parlamentare che non ha un vero radicamento nell’impegno quotidiano, ma solo una selezione tra gruppi dirigenti di partiti svuotati di partecipazione. Ed è stato proprio il patron del Festival, Giorgio Vittadini, a porre al suo ospite la domanda secca: «Queste sono altre elezioni da nominati decidono tutto le segreterie dei partiti. Si può tornare a decidere chi votare o no?»

lo schema che viene fuori da questo ragionamento è più o meno il seguente: le leggi e di governi li fanno ancora i nominati dei partiti, ma i partiti “non hanno più la forza di convogliare i propri iscritti e attraverso di loro convincere altri verso le azioni necessarie per il bene comune”, ha detto Amato, per cui la distanza del terzo settore alla fine porta ad un progressivo peggioramento dei meccanismi di rappresentanza. La paura è che “la politica oggi non sia attrezzata per il compito immane che abbiamo davanti”, ha chiosato Amato. I partiti sono concentrati ad inseguire il consenso, piuttosto che guidare il paese verso una direzione di senso.

Con altre parole anche papa Francesco, fin dall’inizio del suo pontificato, ha invitato più riprese i cattolici a “sdoganare” questa paura, invitandoli ad “immischiarsi” nella politica.

La cornice teorica unanimemente condivisa dei motivi che sono alla base della destrutturazione dei grandi partiti, ed al progressivo assenteismo degli elettori alle urne, è l’avvento della “società liquida”, espressione coniata da Bauman e ripresa da Amato nel suo intervento. Nella società liquida la politica si confonde spesso con la “propaganda permanente”, come scriveva Capanna, ed il rapporto tra partiti ed opinione pubblica sembra replicare più i sistemi di consumo che i sistemi pedagogici di buberiana memoria. Più che l’egemonia culturale auspicata da Gramsci, sembra che l’egemonia delle relazioni di mercato abbiano preso il sopravvento nei contenitori della politica attiva.

Ma se l’assunto di vivere in una società liquida è indiscutibile, allora forse non è la “paura” del terzo settore l’unica lettura possibile. Forse la transizione tra i contenitori della formazione politica ed i contenitori della gestione del potere non può proprio avvenire alle condizioni di oggi.

A mio modesto parere la soluzione a questo divario (impegno sociale vs impegno politico) non potrà consistere nel ricorso alla semplice “economia del travaso”, per dirla con Sauvy, cioè nell’attesa che i milioni di “operai del bene comune”, uniti nel terzo settore, transitino nelle strutture di partito per rinnovare il modus vivendi della rappresentanza parlamentare ed amministrativa.

La vera sfida sarà piuttosto nella valutazione attenta dei contenitori, in relazione al cambiamento sociale per il quale il terzo settore è impegnato.

I volontari, gli operatori e le operatrici sociali sono in buona parte fuori dalle competizioni elettorali probabilmente perché i contenitori in cui dovrebbero entrare semplicemente non sono adatti al travaso, né ritengono che entrare in un contenitore-partito significhi avere chance reali del cambiamento di contesto.

Ho vissuto sulla mia pelle l’impossibilità del travaso, quando una federazione provinciale all’unanimità mi ha voluto designare quale candidato unico al collegio uninominale ed una segreteria nazionale quindici giorni dopo ha bocciato la designazione, senza dover aggiungere alcuna spiegazione alla scelta contraria. Il rischio che avrei corso nella “performance” era esattamente quello che descrivevo sopra: non la costruzione di una visione comune, per cui vale la pena lottare e metterci la faccia ed anche perdere, ma una prestazione consumistica, una relazione orfana. La vittoria di un esponente della società civile dà “il potere” di essere apparentemente dentro un sistema decisionale, ma il metodo della decision making resta alieno dai crismi della società civile e di fatto la ingoia.

Abbiamo visto in pochi anni il deteriorarsi dei meet up territoriali del Movimento 5Stelle, sempre molto partecipati e vivi sui territori fino alla grande vittoria del 2018, poi trasformatisi in luoghi virtuali di elezione di candidati tra bande di correntisti dello stesso Movimento; abbiamo visto i tentativi ultimi del PD di aprirsi con una progettazione dal basso sui contenuti, attraverso il corretto metodo delle Agorà democratiche, per poi stabilire che il segretario nazionale fosse un organo monocratico di composizione delle liste elettorali su tutti i territori; abbiamo assistito allo sfascio del partito-azienda Forza Italia, a lungo la principale forza elettorale di centro destra; l’emergere di ipotesi sovraniste, ancorate al bottino elettorale del sempre verde “Dio-Patria-Famiglia”, ha ingoiato anche il radicamento territoriale di quel partito regionale e pragmatico che era la Lega Nord, oggi confusa e confinante con l’upgrade della Fiamma MSI, Fratelli D’Italia.

Se domani entrassero 4 milioni di operatori sociali in questi contenitori non avremo automaticamente un cambiamento degli stessi, tuttalpiù un po’ di nuovo smalto ai loro contenuti. Ma alla fine, quando la gara incomberà ed il traguardo resterà solo il raggiungimento del consenso, sarà sempre la posizione liquida a trionfare. Non è un caso che i politici di tutti gli schieramenti, dall’estrema destra alla sinistra, chiedono ai loro supporter di lavorare “ventre a terra” (ricorrendo alla metafora dei cavalli che corrono velocissimi sulle piste sfiorando con la pancia la terra battuta) perché alla fine il contenitore-partito si valuta sulla performance e non sulla visione che ha per i prossimi cinquant’anni e, da Veltroni in poi, esce puntualmente di scena, a fine corsa, il fantino che ha perso.

La città resiste

Non è così “nella politica del marciapiede”, della siepe tagliata, dei servizi comunali, degli spazi giovanili, dell’acqua potabile, delle città. In quel caso anche i partiti sono costretti a lasciare spazio all’unico vero contenitore collettivo: la città, l’unica vera narrazione corale che ancora resiste alla liquidità. Può non piacere Roma, ma non puoi non dirti romano; puoi avere in odio la Circumvesuviana, ma non puoi non sentirti un napoletano; può deluderti l’offerta ma non puoi non sentirti un cosentino, un ennese, un beneventano. È nella città che è possibile cogliere ed incentivare il cambiamento della politica, la congiuntura tra gli impegni del terzo settore e gli impegni per l’amministrazione attiva.

Qui la perfomance elettorale è fatta di volti, di nomi e di cognomi, di relazioni, di una visione comune del “luogo”. È qui che dovrebbe avvenire il travaso naturale, e non di sola andata, tra “personale” e “politico”, tra un voto ed una buona azione, tra uno schieramento civico ed una visione concreta di comunità.

Non c’è paura di fare il salto, in tanti cooperatori e volontari, c’è piuttosto la paura di fare un salto a vuoto e di essere, dentro l’irreggimentazione di un partito, meno influenti per il cambiamento atteso rispetto ad una pratica di terzo settore.

L’invito alla non-paura del presidente Amato dovrebbe essere rivolto principalmente alla politica delle città, dove la co-governance pubblica, regolata dalla riforma del 2017 e dalla sentenza della Corte Costituzionale n.131, non è più una chimera, ma una verità legislativa, una parte di costituzione materiale che aspetta di vivere nella cura di un parco, nella valorizzazione degli anziani, nel contrasto all’azzardo, nella presa in carico degli adolescenti.

È qui che la porosità e lo sconfinamento tra i due mondi, politica e terzo settore, può avere l’effetto inedito di dare nuova linfa al racconto politico. È proprio nella città, tra l’altro, che langue maggiormente il rapporto tra cittadino e partiti: nei quartieri più popolari di Roma e Torino ci sono state astensioni superiori al 63% nel 2021.

Come insegnava Pasolini, nei suoi Scritti Corsari, in quelle realtà di periferia non esistono fascisti, ma esistono tanti “ragazzi non ascoltati”. Nessuna buona segreteria di partito può restituire questo ascolto della politica se non lo si pratica in città.

Forse dal meeting quest’anno potrebbe venir fuori un nuovo impegno per le leadership diffuse sui territori, dove il rapporto tra contenitore e contenuto è ancora possibile coglierlo nella relazione tra persona e luogo.


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