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Cooperazione & Relazioni internazionali

Taiwan, smorzare i toni e cercare un compromesso prima che sia troppo tardi

Alta tensione nello stretto di Taiwan da quando a inizio agosto Nancy Pelosi, la presidente del Congresso americano, ha fatto visita all'isola. Provocazione calcolata per testare la reazione cinese o atto irresponsabile di narcisismo politico? L'iniziativa della speaker della Camera dei Rappresentanti è avvenuta nel momento più sbagliato. E adesso?

di Paolo Bergamaschi

Alta tensione nello stretto di Taiwan da quando a inizio agosto Nancy Pelosi, la presidente del Congresso americano, ha fatto visita all'isola. Nonostante Joe Biden nei giorni precedenti con una telefonata al suo omologo Xi Jinping avesse cercato di disinnescare la mossa sconfessandola la reazione di Pechino è stata furiosa e perentoria. "Non si scherza con l'integrità territoriale della Cina" è stato il messaggio tranciante. De iure l'isola di Formosa appartiene alla Repubblica Popolare Cinese ma di fatto, dal 1949, è un'entità separata dalla Cina organizzata in uno Stato che, pur non facendo parte delle Nazioni Unite, ha garantito democrazia e diritti umani ai suoi quasi 24 milioni di abitanti. Tutto il contrario di quanto avviene sulla terraferma dove vige una spietata dittatura di partito che nega le libertà civili e i diritti delle minoranze. Da sempre Pechino rivendica, legittimamente, la riunificazione con Taipei ma mentre fino a qualche anno fa il processo avrebbe dovuto svolgersi in modo pacifico oggi le autorità cinesi non fanno mistero di potere ricorrere ai mezzi militari se fosse necessario.

È un equilibrio molto fragile quello che ha retto le relazioni fra le due sponde puntellato dalla politica di "ambiguità strategica" adottata dagli Usa che sostengono Taiwan sia politicamente che militarmente senza mai spingersi ad alimentarne le aspirazioni indipendentiste. La visita di Nancy Pelosi, la terza carica istituzionale americana, è stata la scintilla che rischia di fare esplodere la situazione accelerando una resa dei conti che gli osservatori auspicavano potesse appianarsi nel tempo. Provocazione calcolata per testare la reazione cinese o atto irresponsabile di narcisismo politico? L'iniziativa della speaker della Camera dei Rappresentanti è avvenuta nel momento più sbagliato visto il complicato contesto internazionale anche se ha avuto il merito di riportare all'attenzione di tutti la questione di Taiwan.

Fino al 2020 potevamo contare su tre modelli di Cina. Oltre alla Repubblica Popolare e a Taiwan bisognava considerare anche l'esperimento di Hong Kong, l'ex colonia britannica che dal 1997 è tornata sotto il controllo di Pechino. Per Hong Kong era stato coniato il principio "Un unico Paese, due sistemi" ovvero l'impegno da parte cinese a rispettare la piena autonomia e, quindi, le basi su cui poggiava la zoppicante democrazia della nuova regione ad amministrazione speciale. Hong Kong avrebbe dovuto fare da battistrada all'inevitabile processo di ricongiunzione di Taiwan alla Cina. L'adozione della legge sulla Sicurezza Nazionale, due anni fa, ha asfaltato come un carro armato ogni germoglio democratico nell'ex colonia. Sono 200 gli attivisti arrestati con l'accusa di avere violato le nuove norme. Altri 47 sono in questi giorni alla sbarra con l'accusa di "cospirazione a fini sovversivi" rischiando una condanna che varia da dieci anni di detenzione all'ergastolo. A nulla è valsa la richiesta di abrogazione della legge da parte della Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite lo scorso 27 luglio.

Per molti osservatori e, soprattutto, per l'opinione pubblica taiwanese quanto sta avvenendo a Hong Kong è la dimostrazione dell'incompatibilità del regime cinese con qualsiasi tentativo, anche timido, di apertura o riforma democratica e che Pechino non mantiene la parola data. Le dichiarazioni, inoltre, dell'ambasciatore cinese in Francia secondo il quale la Cina condurrà una campagna di rieducazione della popolazione taiwanese, sottintendendo dopo la riunificazione con l'isola, hanno gettato ulteriore benzina sul fuoco. Va considerato che la Repubblica Popolare Cinese, elemento importante purtroppo ignorato dai media, è impelagata in dispute marittime e territoriali con almeno quindici Paesi (dall'Indonesia alla Malaysia, dall'India al Nepal), praticamente con tutti i vicini, che non dormono certo sonni tranquilli viste le dimensioni e la potenza del contendente.

Occorre smorzare i toni evitando inutili provocazioni per arrivare a un compromesso prima che sia troppo tardi. Purché questo non comporti la condanna a morte della democrazia a Taiwan.


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