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La scuola è sfinita

Neil Postman paragonava la scuola a un sarto che realizzava un solo pantalone: se non calzava a pennello, la colpa era delle natiche del cliente. La nostra scuola è così, dice il dirigente scolastico Maurizio Parodi nel suo nuovo libro: «Una scuola uguale per tutti, che vede tutti come indistinti. Chi si adegua è accolto, chi non vuole o non può adattarsi viene respinto. Dobbiamo passare da una scuola per tutti a una scuola di tutti». L'intervista

di Sara De Carli

Primo settembre, capodanno. Comincia la scuola, buon lavoro alla scuola. Ma com'è la scuola che riprende oggi? Maurizio Parodi – dirigente scolastico, ricercatore e saggista, nonché fondatore e portavoce del gruppo Facebook “Basta compiti” – ha scelto un aggettivo molto impegnativo: sfinita. Nel suo nuovo libro (La scuola è sfinita, edizioni la meridiana) racconta il malessere di alunni tentati dall'abbandono e sfiancati dalla mancanza di senso, famiglie, docenti in burn out. Non per disfattismo o per scrivere l'ennesimo inutile e generalizzato de produndis ma per spingere la scuola stessa ad «attarversare il dolore della scoperta», come scrive Gabriella Falcicchio nella prefazione, e assumersi il desiderio di un cambiamento.

Parodi la scuola la vive dall'interno. E dall'interno scrive che la scuola «fa finta di essere sana, si crede sana (malati sono semmai gli studenti che non riescono) ma, al contrario, versa in condizioni gravissime. È sfinita, nonostante si cerchi in ogni modo di protrarne l’esistenza con inter­venti che ne estendono, pervasivamente, le propaggini sociali, sino a colonizzare l’intera vita degli studenti e delle loro famiglie. I sintomi sono evidenti e inquietanti, anche se non si può e non si vuole vederli. Eppure il mal di scuola è sempre più diffuso, profondo, manifesto». Un libro scritto non per denuncia ma per amore della scuola, per uscire dalla cecità difensiva di ciò che amiamo, per mettere tra parentesi gli automatismi e per guardare dentro un soggetto che «ha perso il suo senso» m che può e deve per recuperarlo, mettendo in campo – lo dice il sottotitolo – dei "ricostituenti pedagogici".

Perché ha scritto questo libro?

Perché per introdurre elementi di innovazione, per migliorare realmente evitando i maquillage in cui siamo bravissimi – basta leggere i PTOF rutilanti delle nostre scuole, che in realtà raccontano qualcosa di fasullo – occorre entrare nei meccanismo profondi che guidano le scelte e le non scelte dei docenti, come diceva già Bateson. Occorre osservare la realtà concreta con sguardo antropologico e cercare di scoprire il senso delle cose che si fanno, gli impliciti e gli effetti. È difficile perché ovviamente se gli insegnanti preferiscono non essere turbati, fermarsi agli innesti compatibili con le logiche consolidate. Ma se cerchi di approfondire lo sguardo, l'approccio è destabilizzante. Tra i postulati occulti della didattica reale, tra i convincimenti profondi per quanto spesso inconsapevoli e inconfessabili degli insegnanti, c’è quello che la scuola è giusta e gli studenti sono sbagliati. Non sarà mai scritto in un documento, ma è così. Il rendimento dello studente è responsabilità dello studente o al massimo della sua famiglia, mai del docente. Il fallimento scolastico non è un problema della scuola, ma qualcosa da ricondurre solo alla negligenza o alla inabilità dello studente. È aberrante. Perché invece il mancato apprendimento dello studente è un problema della scuola, anzi è la ragion d’essere della scuola. Invece la scuola considera qualsiasi deviazione anche minima nella capacità di adattamento al sistema come un disturbo di percorso, etichettandola come problema psicologico, farmacologico, sanitario… mai pedagogico.

Lo diceva già don Milani, paragonando la scuola a un ospedale che cura i sani e respinge i malati….

Sì e c'è anche un'altra immagine efficace, menzionata da Neil Postman: quella del sarto che realizzava un solo tipo di pantalone e poi sosteneva che fossero sbagliate le natiche del cliente, quando il suo modello non calzava loro a dovere. Che la scuola abbia un problema enorme, in questo senso, è evidente: basta pensare ai dati relativi all’analfabetismo funzionale, alla mortalità scolastica, all’incapacità di compensare le diseguaglianze di partenza. Oggi la situazione è anche peggio di quel che diceva don Milani. La nostra non è la scuola dell’insegnamento individualizzato, è la scuola dell’individualismo, degli studenti indistinti, separati fra loro, dell’agonismo. La scuola è uguale per tutti e tutti sono uguali per la scuola, cioè indistinti. Chi si adegua viene accolto, chi non vuole o non può adattarsi viene respinto. Questa retorica dell’uguaglianza intesa come indistinzione porta a un aggravamento delle diseguaglianze: la scuola non funziona più come ascensore sociale ma perpetua le stesse diseguaglianze con cui gli studenti nella scuola entrano, anzi le aggravano. La scuola aggrava la condizione di che della scuola avrebbe più bisogno. Le indicazioni sono splendide, pedagogicamente evolute ma nella realtà la scuola è questa. Noi abbiamo una scuola che fa male. La scuola italiana non solo non tiene fede all’impegno istituzionale che le è affidato dalla Costituzione (e dichiarato nei Ptof) ma fa il contrario. C’è una gran retorica sul benessere a scuola, mentre la verità è che la scuola aggrava la condizione di chi è disagiato. I ragazzi l’hanno percepito benissimo al primo rientro dopo il Covid, quando hanno visto i docenti “in agguato” con batterie di verifiche. Vanno benissimo tutti gli interventi, tutti i progetti ma il benessere scolastico prima di tutto è trovare un senso a quello che si fa. A scuola questo manca del tutto: le cose che si fanno a scuola, si fanno solo perché si devono fare. L’unico valore che i ragazzi riconoscono alla scuola è la socialità tra pari, che peraltro non viene quasi mai valorizzata dalle didattiche.

Quindi per cambiare rotta sulla dispersione cosa bisognerebbe fare?

Innanzitutto se ci si muove solo con logica additiva, se si aggiungono educazioni, laboratori, attività extracurricolari ma senza mai mettere in discussione le modalità della scuola… non andremo lontano. Finché la scuola è giusta e sbagliati sono gli studenti… il docente non ha alcun motivo di rimettersi in discussione. Più che di formazione, in questo senso, servono percorsi di conversione: che non significa affidarsi al guru di turno ma fare un lavoro in profondità su quali sono i pregiudizi che determinano anche inconsapevolmente le nostre azioni di insegnanti, anche dal punto di vista relazionale e didattico. L’insegnante deve fare l'insegnante, certo, non lo psicologo né l'educatore né l'assistente sociale: ma deve farlo bene. Se non si interviene sulla radice, tutto viene neutralizzato, anche le proposte più innovative. Dobbiamo passare dalla scuola per tutti alla scuola di tutti, dove ognuno sia visto e valorizzato nella sua diversità.


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