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Politica & Istituzioni

Perché la politica ha paura del Terzo settore

Riproponiamo l'editoriale del direttore che apre il numero di VITA di settembre: "Il Terzo settore quando “fa” è utile e necessario (la stampella del welfare), ma quando “pensa” non va più bene. Alla politica partitica cominciano a tremare le gambe, proprio perché oggi il cosiddetto sociale ha competenze e strumenti giuridici capaci di rivoluzionare lo status quo"

di Redazione

Nella prima parte della campagna elettorale non sono mancati i riferimenti, anche alti e qualificati, ai soggetti sociali e al Terzo settore. Il presidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato è tornato su un tema a lui caro: l’invito al volontariato e al non profit di andare in soccorso alla politica, «ci sono in Italia milioni di persone che si occupano solo degli altri e del bene degli altri. Questa è la risorsa, la motrice che dobbiamo mettere in campo». Il presidente del Consiglio Mario Draghi ha definito il Terzo settore «fondamentale per uscire dalla crisi». Il numero uno della Cei Matteo Zuppi ha invitato la politica a considerare questo mondo «un interlocutore importante e decisivo per le istituzioni presenti e future». «E sottolineo “future”», ha rimarcato l’arcivescovo di Bologna. Tutti e tre hanno parlato dal meeting di Rimini, per distacco la kermesse politica di maggior interesse in questa misera campagna elettorale estiva. Una centralità quella indicata da tre fra le figure più autorevoli del nostro panorama istituzionale, che non si riflette in alcun modo né nella scelta delle candidature (davvero poche quelle che hanno nel cv esperienze associative significative), né nei documenti programmatici dei partiti. Nella lettura comparata che Giampaolo Cerri ha fatto per noi (vedi a pag. 73) emerge chiaramente che il sociale e il Terzo settore o vengono presi in considerazione (talvolta anche in modo corposo) in una prospettiva settoriale oppure vengono bellamente ignorati. La conseguenza è che i temi del Terzo settore (ricordiamolo: 380mila enti senza scopo di lucro che svolgono attività a favore di oltre 35 milioni di persone e che operano in modo volontario o stanno sul mercato investendo quasi tutto il proprio valore aggiunto su lavoro e in attività d’interesse generale o mutualistiche, “patrimonializzando così le future generazioni”, per prendere a prestito le parole di Paolo Venturi, direttore di Aiccon) sono quasi del tutto assenti dal dibattito politico. In questi giorni avete mai sentito parlare di pace, di riforma della non autosufficienza, di universalità del servizio civile, di cancellazione dell’Iva al non profit, di remunerazione del lavoro di cura, di rilancio del 5 per mille, di lotta alle false cooperative, di comunità energetiche, di contrasto alla dispersione scolastica, di minori? Nessuna parte politica si caratterizza limpidamente per la consapevolezza che questo mondo possa fare da driver nel ridesign delle politiche sociali e di welfare in una logica di sistema. Di sistema e soprattutto di sviluppo. Ci sono differenze tra i partiti, tra chi è più attento e chi per nulla, ma nessuno osa proporre un cambio di paradigma: passare da un welfare assistenziale di protezione, a un welfare comunitario e di sviluppo.

Gli strumenti normativi oggi esistono: la coprogrammazione e la coprogettazione, in primis. Giampaolo Silvestri, segretario generale di Avsi in un recente articolo sul Corriere della Sera ha giustamente ricordato come in base a una sentenza della Corte Costituzionale (n. 131 del 2020) riferita proprio a quei due istituti «Terzo settore e amministrazioni pubbliche sono parimenti costruttori di bene comune. Dal punto di vista giuridico questa sentenza respinge nel Novecento sia la logica dell’appalto, sia la sussidiarietà orizzontale». Perché allora le norme su coprogettazione e coprogrammazione pur avendo un potenziale dirompente sono di fatto silenziate dalla narrazione politica, mentre non c’è occasione pubblica a favore di telecamera in cui i politici non liscino il pelo al Terzo settore «cuore pulsante del Paese» (Giuseppe Conte dixit)?

La risposta è che il Terzo settore quando “fa” è utile e necessario (la stampella del welfare), ma quando “pensa” non va più bene. Alla politica partitica cominciano a tremare le gambe, proprio perché oggi (ieri non era così) il cosiddetto sociale ha competenze e strumenti giuridici capaci di rivoluzionare lo status quo. Pensiamo solo al grande lavoro di analisi e critica che l’Alleanza contro le povertà ha fatto nella prospettiva di revisione del Reddito di Cittadinanza, studio che i 5 Stelle vedono come il fumo negli occhi solo perché tocca un loro totem. Oppure alle conseguenze che potrebbe avere l’assegnazione diretta di una quota delle risorse sociali del Pnrr a realtà del Terzo settore. O ancora l’introduzione della gestione degli interventi sociali per mezzo di imprese sociali sul modello di “Con i bambini”, promossa da Fondazione con il Sud che prevede per ogni azione una verifica dell’impatto generato. Ognuno di questi esempi (e altri se ne potrebbero proporre) di fatto restringe il perimetro dei centri di spesa gestibili in prima persona dai partiti o dai loro nominati. E depotenzierebbe campagne comunicative populiste e demagogiche. Molto più semplice encomiare gli operatori sociali di giorno e continuare a fare bandi al massimo ribasso per gestire i servizi sociali di notte. Poi però la gente smette di andare a votare. E qui il giochino si rompe.


Foto: Ag. Sintesi


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