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Dispersione scolastica, scuola e Terzo settore: chi tiene le chiavi?

Con il sito e con il magazine, per tutto il mese di settembre abbiamo riportato l'attenzione sui tantissimi - troppi - ragazzi e ragazze che la scuola perde. Abbiamo tirato fuori numeri inediti e messo in fila numeri noti ma troppo spesso "normalizzati". Abbiamo condiviso riflessioni, raccolto provocazioni e raccontato buone pratiche. Oggi la voce che vi proponiamo è quella di Beppe Bagni, presidente nazionale del CIDI. Costruire alleanze autentiche sui territori continua ad essere, per noi, la strada da seguire: un lavoro di semina che continueremo a raccontare

di Sara De Carli

«La dispersione scolastica? Non approcciamola come un problema di welfare, facendo progetti assistenziali. È la scuola che deve cambiare». Beppe Bagni, a lungo docente di un istituto professionale e da undici anni presidente nazionale del CIDI-Centro Iniziativa Democratica Insegnanti, mette in guardia dal rischio di pensare di risolvere il problema solo con progetti di recupero di chi è già in abbandono, senza un radicale cambiamento della scuola. Con il sito e con il magazine, per tutto il mese di settembre abbiamo riportato l'attenzione sui tantissimi – troppi – ragazzi e ragazze che la scuola perde. Abbiamo tirato fuori numeri inediti e messo in fila numeri noti ma troppo spesso "normalizzati". Abbiamo convidiso riflessioni, raccolto provocazioni e raccontato buone pratiche. Qui potete scaricare il magazine. Costruire alleanze autentiche sui territori continua ad essere, per noi, la strada da seguire: un lavoro di semina che continueremo a raccontare.

La dispersione scolastica non è una novità per il nostro Paese: quali sono le novità o le peculiarità dei nostri tempi?

La novità è questa emergenza della povertà minorile, che quindici anni fa non c’era. E il fatto che ci sono tutte le evidenze per cui chi lascia la scuola resta povero educativamente e lo diventa anche economicamente. Questo tema è entrato da qualche anno – non lo era mai stato – nell’attenzione della politica. Vorrei sottolineare però che è importante declinarlo come un problema nazionale, del nostro sistema di istruzione: non possiamo pensarlo come un problema dei poveri o dei dispersi perché in quel modo finiremmo per impostare le risposta su progetti assistenziali verso “il disperso”. Certo che mi interessa il destino di ogni singolo ragazzo, ma il nostro problema è la povertà del sistema educativo. Quando un sistema perde le percentuali di alunni che perdiamo noi, significa che il sistema educativo è malato e deve essere corretto.

Povertà educativa e dispersione scolastica devono essere declinate come un problema nazionale, del nostro sistema di istruzione: non possiamo pensarle come un problema dei poveri o dei dispersi perché in quel modo finiremmo per impostare le risposta su progetti assistenziali. Certo che mi interessa il destino di ogni singolo ragazzo, ma il nostro problema è la povertà del sistema educativo. Quando un sistema perde le percentuali di alunni che perdiamo noi, significa che il sistema educativo è malato e deve essere corretto.

Beppe Bagni, presidente nazionale del CIDI

La scuola per prima deve cambiare quindi. Perché?

C’è bisogno di un'alleanza educativa nel territorio, vera, tra scuola ed extra-scuola. La scuola infatti non vede la totalità dell’adolescente, la scuola vede il ragazzo e la ragazza solo nello spazio della scuola: se vogliamo davvero che ognuno sia visto nella sua interezza, che abbia attorno a sé un progetto educativo complessivo e coerente, la scuola da sola non basta. Ciò non significa fare scuola sempre e ovunque, non bisogna "prendere appunti nel tempo libero”, ma significa che gli adulti – che hanno un progetto educativo comune – sanno che la scuola deve tenere conto delle esperienze fatte nell’extra-scuola. Detto questo, però, la povertà educativa è povertà dell'educazione e il primo soggetto che deve interrogarsi è la scuola. Da sola la scuola non può combattere la povertà educativa, ma nessuno può pensare di combatterla senza la scuola: questo teniamolo ben presente, non si appalta la soluzione del problema all’extra-scuola. Certo che la scuola ha bisogno di essere affiancata da altre professionalità ed esperienze. Certo che la scuola deve imparare ad avvalersi delle risorse e dei contributi del territorio. La scuola va fatta anche a partire dall’extra-scuola e deve essere consapevole della necessità di allargare e arricchire il proprio vocabolario. Ma non può appaltare la propria funzione al territorio. La scuola non può dire “voi fate un progetto, noi vi diamo le chiavi della scuola”.

Da sola la scuola non può combattere la povertà educativa, ma nessuno può pensare di combatterla senza la scuola: questo teniamolo ben presente, non si appalta la soluzione del problema all’extra-scuola. Certo che la scuola ha bisogno di essere affiancata da altre professionalità ed esperienze. Certo che la scuola deve imparare ad avvalersi delle risorse e dei contributi del territorio. La scuola va fatta anche a partire dall’extra-scuola e deve essere consapevole della necessità di allargare e arricchire il proprio vocabolario. Ma non può appaltare la propria funzione al territorio. La scuola non può dire “voi fate un progetto, noi vi diamo le chiavi della scuola”.

Beppe Bagni, presidente nazionale del CIDI

Dall’altra parte c’è anche il rischio che il Terzo settore venga considerato un mero fornitore di servizi, senza partecipare alla progettazione educativa. La relazione tra scuola ed extra-scuola non è così semplice e scontata ma è necessaria…

Questo è un problema del nostro sistema educativo: la scuola ha confini poco chiari, non si capisce bene cos'è scuola e cosa non è scuola. Quando c’è un problema sociale, tutti dicono “se ne occupi la scuola”. In questi anni è giustamente cresciuta la sensibilità verso temi come l’educazione sessuale, affettiva, emotiva, ma che finiscono per diventare “materie”, come se tutto quello che afferisce al bambino o al ragazzo possa essere trattato come un insegnamento staccato dal resto. Non si capisce che la scuola ha il suo vocabolario e il suo modo specifico di educare: la scuola educa attraverso l'istruzione, è questo il suo proprium e quindi è evidente che dobbiamo chiarire molto meglio i confini della scuola, quello che può o non può fare. Però una volta chiariti i confini, questi devono essere aperti, perché nella scuola deve poter entrare tutta la realtà dei ragazzi e bisogna sempre più fare scuola sul vissuto. I confini devono essere chiari, ma attraversabili ed aperti. Noi paradossalmente oggi abbiamo la situazione opposta: la scuola ha dei confini indefiniti, ma chiusi. Sembra che tutte le cose nuove, interessanti, belle possano avvenire extracurricolare, come se l'orario curricolare fosse sacro, separato: no il curricolare è la riflessione della scuola sul vissuto. La disciplina – lo diceva già Bruner – deve far indossare gli occhiali dello scienziato, dello storico, del matematico, del poeta, per imparare a guardare il mondo con quegli occhiali: insegnare una disciplina è mettere i ragazzi nelle condizioni di guardare il mondo sotto ottiche diverse mentre noi insegniamo le discipline come se fossero solo libri già scritti, il racconto di come altri hanno visto il mondo, non qualcosa che riguarda noi oggi.

È molto forte quello che diceva prima: la scuola da sola non ce la fa a combattere la dispersione scolastica, ma nessuno può farcela senza la scuola.

Al centro dobbiamo mettere il malessere che gli alunni vivono nella scuola perché e il mal di scuola si cura a scuola. Con l’aiuto del territorio, sì, ma a scuola, non dopo il suono dell’ultima campanella. La scuola deve cambiare a scuola. Dopo è recupero: è necessario anch’esso, ma non cambia la percezione di alcuni – tanti – ragazzi della scuola come una condanna da scontare. Dobbiamo iniziare a parlare di alunni abbandonati dalla scuola, non di alunni che abbandonano la scuola. Non fare progetti per quei 20 ragazzi su 100 che la scuola in un modo o nell’altro perde, ma per cambiare la scuola dei 100.

Dobbiamo iniziare a parlare di alunni abbandonati dalla scuola, non di alunni che abbandonano la scuola. Non fare progetti per quei 20 ragazzi su 100 che la scuola in un modo o nell’altro perde, ma per cambiare la scuola dei 100.

Perché la scuola è vissuta tanto spesso come una condanna e perde tanti alunni?

Perché non abbiamo un approccio che valorizza la diversità degli alunni. La scuola su questo è ancora troppo rigida, anche perché le classi – diciamo la verità – hanno numeri tali per cui non riesci a fare un approccio laboratoriale. Se hai 30 alunni, non puoi vedere come il singolo studente apprende, i suoi meccanismi di pensiero. Cambierebbe tutto se costruissimo finalmente una didattica nuova per competenze, nel senso di conoscenze che diventano attive nei comportamenti degli alunni, ma certamente non si può fare in un rapporto uno a trenta. Io ho insegnato chimica per trent’anni all’Ipsia, che dicono essere il livello più difficile di insegnamento. Facevo otto ore la settimana in una classe di 24 alunni, solo in laboratorio, con due insegnanti in compresenza sempre… Ho visto come ragazzi e ragazze definiti “non fatti per studiare” sono in realtà capacissimi di apprendere, e considera che il libro che usavo in prima era lo stesso che i colleghi usavano in quarta liceo: i miei alunni però arrivavano sul libro dopo ore e ore di esperienza, il libro era il punto di arrivo, non il punto di partenza o l’unico punto. Ci sono dei modi di fare scuola che cambierebbero radicalmente come gli alunni ci appaiono… Basti pensare alla differenza con cui “vedevamo” gli alunni noi insegnanti di materie svolte nei laboratori e gli insegnanti che li vedevano solo in aula: spesso avevamo valutazioni diametralmente opposte. Ricordo gli elogi dei prof d’aula alle uniche quattro ragazze della classe che stavano in aula mute, con la motivazione che “almeno non disturbano”: per noi che insegnavamo in laboratorio invece era evidente che quelle allieve erano come auto ferme in autostrada. “Disturbavano” non perché facessero rumore ma perché gli altri le dovevano scansare. Il loro silenzio gridava la loro voglia di essere invisibili, distanti, altrove. A febbraio, delle quattro allieve, due si ritirarono. Il loro stare zitte nel banco era un patto scellerato: “noi non disturbiamo, ma voi non pretendete niente da noi”.

Foto Unsplash


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