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Cooperazione & Relazioni internazionali

Egitto e Tunisia, una lezione da non dimenticare

di Giulio Albanese

Cari amici lettori, vorrei tornare a riflettere con voi sulla questione della “rivolta del pane”. Un fenomeno, come abbiamo già scritto in questo Blog, che sta interessando trasversalmente il Nord Africa, davvero senza precedenti nella storia post-moderna su scala planetaria. Solitamente i moti popolari che vedono coinvolti i giovani, quando sono spontanei, come è successo recentemente a Teheran in Iran, o nel 1989 a piazza Tienanmen in Cina, vengono repressi molto duramente. D’altronde, in questi due Paesi asiatici il sistema di governo è tale per cui, chi è nella stanza dei bottoni, riesce a gestire tutta una serie di meccanismi coercitivi che sortiscono l’effetto di un impietoso rullo compressore contro ogni forma di dissidenza. Questa volta invece, sia in Tunisia, come anche in Egitto, la rivolta, pur essendo spontanea, è riuscita a mandare a gambe all’aria due inossidabili “presidenti-padroni”. Prima il tunisino Ben Ali e poi l’egiziano Hosni Mubarak. Personaggi che hanno fatto per decenni il bello e il cattivo tempo, con la “benedizione” (ci duole doverne prendere atto!) delle democrazie occidentali.

Stiamo parlando di potenti oligarchie locali, veri e propri regimi criminali, capaci di seminare il terrore, soffocando qualsiasi istanza democratica sollevata dalle opposizioni. E allora, come mai a Tunisi e al Cairo non è finita come a Teheran o a piazza Tienanmen? Innanzitutto e soprattutto perché non vi sono state interferenze straniere che avrebbero potuto indebolire l’autorevolezza dei dimostranti, ma anche per la trasversalità della protesta che ha mobilitato assieme tutte le componenti sociali e religiose di questi due Paesi nordafricani. Proviamo allora a comprendere meglio le dinamiche interne che hanno accomunato i regimi di Ben Ali e di Mubarak rendendoli a dir poco spietati. La “sicurezza”, per questi signori, rappresentava una fissazione non solo per assicurare la protezione dei turisti stranieri, ma soprattutto per garantire il pieno controllo delle loro rispettive nazioni e dunque la loro incolumità. Ma il dato forse più inquietante che accomuna questi due satrapi è stata la capacità di affinare dei sistemi capaci di trasformare le risorse pubbliche in ricchezza privata, ricorrendo sistematicamente alla forza e alla corruzione per impedire ogni possibile cambiamento.  Si tratta di un fenomeno che va sotto il nome di cleptocrazia (letteralmente: governo fondato sul ladrocinio) le cui conseguenze sono state l’immiserimento delle popolazioni, l’arricchimento personale dell’elité dominante, lo svuotamento delle casse dello stato, e la svendita delle risorse nazionali al miglio offerente. Regimi che hanno spaccato in due Egitto e Tunisia, seguendo un identico copione. Da una parte, il solito manipolo di nababbi, ammanicati con le alte sfere, e dall’altra un mare magnum di miserabili relegati ad una vita che possa definirsi decente: nulla di nulla. A questo punto viene per davvero spontaneo domandarsi se era proprio necessario servirsi di Ben Ali e Mubarak per contrastare il fondamentalismo islamico, quando invece nei loro Paesi c’è sempre stata una società civile, quella che è scesa in piazza in queste settimane, che, se aiutata, avrebbe costituito il miglior antidoto contro l’estremismo politico e religioso. Una società fatta di gente comune – studenti, operai, piccoli commercianti, piccolo borghesi, musulmani e cristiani – che invocava il cambiamento. E cosa dire degli intellettuali i quali sono stati i primi ad opporsi con coraggio e povertà di mezzi contro ogni forma discriminazione, avvertendo la necessità di una lettura critica della storia islamica in netto contrasto con i fautori del “jhad” o di qualsiasi dittatura? È emblematico il pensiero dello scrittore egiziano Sayyed al-Qimani che ha difeso strenuamente il razionalismo, affermando che esso è patrimonio della tradizione islamica – riferendosi ad esempio al pensiero del filosofo Averroè – ma poi “silenziato” dai tradizionalisti fautori della sharìa, la legge islamica. Un altro intellettuale che ha invocato il rinnovamento è stato il suo connazionale Khalil Abd al-Karim che ha presentato la propria lettura storica come alternativa alla visione fondamentalista degli estremisti. Per non parlare dei fatti della quotidianità raccontati dalla letteratura e dal cinema egiziano: basti pensare al romanzo del premio Nobel Nagib Mahfuz “Karnak” o al film “Siamo quelli dell’autobus” sulla falsificazione delle accuse da parte della polizia per carrierismo.

Circa una cinquantina di anni fa, il padre del riformismo islamico iraniano, Ali Shari’ati, diceva che l’Islam contemporaneo è nel suo XIII / XIV secolo; e se guardiamo alla storia europea di quel tempo, cioè del XIII / XIV secolo europeo, scopriremo che per il Vecchio Continente non era ancora iniziata la riforma protestante.  Secondo Shari’ati, per superare il Medio Evo islamico, i musulmani non possono pensare di saltare a piè pari cinque, sei secoli, arrivando di getto alla cultura moderna. “Dobbiamo riformare l’Islam – scriveva l’intellettuale iraniano – rendendolo il volano di liberazione delle nostre società ancora ferme a una dimensione sociale tribale, cioè al Medio Evo dell’Oriente, mentre oggi è lo strumento usato dai reazionari per evitare il progresso e lo sviluppo sociale”. Una responsabilità di cui deve farsi interprete soprattutto l’Europa se vuole essere coerente con i suoi principi. I fatti che hanno coinvolto in queste settimane Egitto e Tunisia sono  una lezione da non dimenticare.


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