Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Cooperazione & Relazioni internazionali

In ricordo di un grande presidente africano, Sankara

di Giulio Albanese

Domani, 15 ottobre, ricorre l’anniversario dell’uccisione di Thomas Sankara. Un personaggio della Storia africana che varrebbe la pena ricordare perché seppe farsi voce di chi non ha voce. La prima volta che sentii parlare di lui fu per caso in Africa, a Kampala, la sera del 4 agosto 1983. Come di consueto, radiolina alla mano, ero intento a seguire “Focus on Africa”, il programma sulle onde corte della BBC. La notizia di apertura riguardava l’Alto Volta, ex colonia francese, dove si apriva un’esperienza rivoluzionaria destinata a lasciare un segno indelebile nella storia del continente. D’allora cominciai a seguire, prima per semplice curiosità, poi con crescente interesse, le vicende di Ouagadougou e dintorni, rimanendo sempre più impressionato dai discorsi illuminati di quel capitano golpista che nel frattempo aveva trasformato l’Alto Volta nel “Paese degli uomini integri” (questo significa Burkina Faso). E i suoi quattro anni di governo, lo si voglia o no, rimangono come una sorta d’indelebile paradigma della politica intesa come servizio del “bene comune”.

Sì, stiamo parlando di “Ce fou de Sankara” (“quel matto di Sankara”) – come solevano apostrofarlo certi benpensanti della nomenclatura parigina – uno dei personaggi più straordinari del XX secolo, non foss’altro perché testimoniò con la vita le sue convinzioni. Con ardite e radicali riforme – tra cui la forte decentralizzazione dell’amministrazione, l’abolizione di balzelli feudali, la riforma agraria, la promozione della donna e forti investimenti nelle infrastrutture – riuscì in poco tempo a realizzare nel suo paese una maggiore giustizia sociale e con essa l’autosufficienza alimentare a livello nazionale. Al contempo si rifiutò di firmare i piani di aggiustamento strutturale, che il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) voleva imporgli a tutti i costi, dicendo chiaro e tondo che le politiche dei paesi industrializzati “miravano a perseguire un controllo politico sui poveri”. Aveva un’antipatia innata per i certi donor internazionali che gli imponevano linee di finanziamento in totale contrasto con i bisogni del popolo. La Banca Mondiale (Bm), ad esempio, era disposta a finanziargli un’autostrada che collegasse la capitale con il nord del paese, ricco di manganese. Ma sapendo che la sua gente non si sarebbe potuta permettere, neanche sognando ad occhi aperti, l’acquisto di una “giardinetta”, volle realizzare una ferrovia con l’aiuto di volontari – inclusi i membri del suo governo – e, per inciso, senza ricevere un quattrino da parte dei presunti “benefattori mondiali” di cui sopra. Il suo intervento al Palazzo di Vetro, durante la trentanovesima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, fu straordinario; disse ad alta voce di fronte : “Il mio paese è un concentrato di tutte le disgrazie dei popoli, una sintesi dolorosa di tutte le sofferenze dell’umanità”, aggiungendo che parlava “a nome di coloro che vivono nei ghetti della storia, perché hanno la pelle nera, […] e chiedo uno sforzo perché abbia fine l’arroganza di chi ha torto, svanisca il triste spettacolo dei bambini che muoiono di fame , sia spazzata l’arroganza, vinca la legittima rivolta del popolo e tacciano finalmente i tuoni di guerra”. Ma certamente, l’aspetto che maggiormente colpisce di Sankara fu la sobrietà di vita al punto che, senza indugio, mise al bando ogni privilegio per la classe dirigente burkinabé, stigmatizzando ogni forma di arricchimento indebito da parte di chiunque rivestisse ruoli di responsabilità nell’amministrazione pubblica. Ordinò la vendita delle Mercedes che componevano il parco-macchine statale e proclamò l’economica “Renault 5”, auto-blu ministeriale. Per intenderci, fece l’esatto contrario di quello che solitamente avviene nei palazzi del potere a tutte le latitudini. Ma quale presidente, in Africa o in qualsiasi altra parte del mondo, avrebbe avuto allora come oggi il coraggio di dichiarare pubblicamente d’essere proprietario soltanto di una moto e di una piccola casetta di cui stava ancora pagando il mutuo? Ebbene, questo era lo stato patrimoniale di Sankara il quale, tra parentesi, giurò guerra alle spese inutili che dilapidavano le già scarse finanze dello Stato. Convinse o costrinse – non è chiaro, ma poco importa – in suoi ministri a volare in classe economica quando erano in trasferta, soggiornando in hotel di due, massimo tre stelle. Diceva a chiare lettere che l’Africa non chiedeva beneficenza ma giustizia e per questo esigeva coerenza in casa – aveva il dente avvelenato con le élite borghesi africane che imponevano un feudalesimo fatto d’intrighi e costrizioni – e correttezza da parte delle ex potenze coloniali. Paladino delle riforme economiche, invocava nuove regole per il commercio mondiale, ritenendo in particolare la questione della restituzione del debito estero come uno dei più grandi crimini contro le popolazioni immiserite dell’Africa Sub-Sahariana. “La sorte riservata dal colonialismo ai paesi poveri – diceva – è la perpetua mendacità come modello di sviluppo”. E la sua analisi si spingeva ben oltre, oltre, evidenziando come l’interesse dei paesi ricchi, durante la guerra fredda, mirasse a dominare i poveri non solo militarmente ed economicamente ma anche culturalmente. Condannò l’infibulazione e la poligamia, e il suo governo fu il primo a dichiarare apertamente che l’Aids costituiva la peggiore minaccia di tutti i tempi per l’Africa. Durante i suoi comizi, contestava le incongruenze del sistema, che ci fossero, ad esempio, a Ouagadougou frotte di politici corrotti e mercanti di pepite in grado di affittare agli ambasciatori stranieri ville lussuose a cifre esorbitanti, quando la gente comune non aveva i soldi per acquistare la “nivachina” contro la malaria. L’esempio del Burkina Faso galvanizzò tutte le vicine nazioni dell’Africa occidentale ma irritò, com’era prevedibile d’altronde, i grandi poteri occidentali; e probabilmente anche per questo Sankara pagò a caro prezzo il suo successo. Il giovane presidente venne assassinato il 15 ottobre del 1987 a soli 37 anni, durante un golpe che portò al potere, ironia della sorte, il suo amico ed ex compagno di lotta Blaise Compaoré, attuale capo di Stato del Burkina Faso. Come rileva Marinella Correggia nell’introduzione a un prezioso saggio su Sankara, curato da Carlo Batà per le edizioni Achab, la rivoluzione del capitano “fu spezzata a metà del guado. Sankara aveva chiesto troppo ai vertici, ormai stufi dello sforzo rivoluzionario; e intanto la base rurale e popolare, i contadini, le donne non erano ancora socializzati alla politica”. Sta di fatto che i poveri non si rivoltarono in massa contro gli autori del suo assassinio, personaggi che ancora oggi continuano a fare il bello e il cattivo tempo con la benedizione dei francesi.

Rileggendo la storia di questo straordinario personaggio, per carità, emergono anche tante debolezze e ingenuità, ma certamente colpisce la sua visione incentrata sull’azzardo dell’utopia: “Per ottenere un cambiamento radicale – diceva – bisogna avere il coraggio d’inventare l’avvenire. Noi dobbiamo osare d’inventare l’avvenire. Tutto quello che viene dall’immaginazione dell’uomo è per l’uomo realizzabile. Di questo sono convinto!”. Vengono alle mente le parole dell’intellettuale beninese Albert Tévoédjrè che, in un magnifico libro – “Povertà, ricchezza dei popoli” – citava una poesia di Salvador Diaz Mirón: “Sappiatelo, sovrani e vassalli, eminenze e mendicanti, nessuno avrà diritto al superfluo, finché uno solo mancherà del necessario”. Ed è questa la vera questione di fondo: l’Africa ha bisogno di leader illuminati capaci d’essere, come scriveva lo stesso Tévoédjrè, “prima di tutto dei dirigenti della vita sociale”. Proprio come Sankara che pagò con la vita le sue convinzioni, finendo col corpo in una fossa comune. Sebbene qualcuno si ostini a dipingerlo con i tratti di un pericoloso marxista fuori dal tempo e dalla storia, il suo pragmatismo ancora oggi ha molto da insegnarci. Come scrisse di lui un giornalista malgascio, Sennen Andriamirado: “Non fu un presidente come gli altri. È stato semmai un incidente della storia, però un incidente felice”. È per questo che nessuna libera coscienza può fare a meno di ricordarlo…


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA